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Conversation

Un altro mondo è possibile: intervista a Fabio Martina regista di L’estate di Gino

Presentato in anteprima a Milano a cura della Fondazione Cineteca Italiana, il nuovo lavoro di Fabio Martina ci parla dell'oggi attraverso la figura di Don Gino Rigoldi, sacerdote milanese che dal 1972 è Cappellano dell’Istituto Penale Minorile Beccaria. A emergere è l'idea di un ritorno alle origini in cui le radici più profonde del primo cristianesimo diventano il viatico per un percorso di liberazione e di rinascita 

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La poesia del tuo film ha la stesse caratteristiche del protagonista e cioè quella di essere semplice. La purezza con cui Don Gino Rigoldi si propone al prossimo nulla toglie alla profondità del suo pensiero. Lo stesso si può dire per il tuo film: arrivano entrambi alla stessa maniera. 

A Milano tra quelli che hanno visto L’estate di Gino c’è stato Alberto Pezzotta del Corriere della sera che l’ha inteso come un film utopistico, quasi pasoliniano. Tu invece lo hai concretizzato nella parola che hai usato nella recensione, perché nelle mie intenzioni il film doveva esprimere un ritorno alle origini. Auspicio rivolto non solo alla religione ma a tutta l’umanità. Il fatto che questo desiderio sia espresso da Don Gino Rigoldi, ovverosia da un prete appartenente a un’istituzione molto potente e tradizionale, rende tale istanza ancora più forte.

In un passaggio del film Don Gino si definisce scherzando un anticlericale, sottolineando un’anomalia da lui espressa – e questo potrebbe apparire paradossale ma non lo è all’interno di una rispettosa ortodossia. Fa cose che non ti aspetteresti da un prete, eppure la sua è una figura totalmente allineata al messaggio del primo cristianesimo.

Si, la sua è una figura cristologia, nel senso che lui applica alla lettera il messaggio del vangelo. Il documentario, in realtà, non lo vuole rappresentare come un Cristo, ma il fatto che lui si rifaccia alle parole di Gesù, mettendole in pratica sopratutto per quanto riguarda il senso di giustizia, spinge verso un’immagine simile a quella dell’uomo di Nazareth.

Nella sua contrapposizione al sistema dominante, in materia di accoglienza e integrazione, la figura di Don Gino mi pare esemplare perché se uno come lui, capace di mettere in pratica i valori cristiani nella maniera di cui abbiamo detto, risulta alieno al proprio tempo, allora vuol dire che siamo molto distanti dalle nostre radici che restano comunque di matrice cristiana.

Si. Lui è particolare nel suo essere, come dici tu, al di fuori del tempo, una caratteristica che gli deriva dall’adottare il concetto di giustizia così com’è scritto nel Vangelo. Una visione che è sempre presente, anche quando si tratta di spiegare l’evoluzione sociologica avvenuta negli istituti di detenzione giovanile in cui gli extra comunitari hanno sostituito i meridionali, che a suo tempo costituivano la popolazione più rilevante all’interno delle carceri. Che il fenomeno sia in aumento lo si vede dalla crescita del numero di detenuti. Tieni conto che nel contesto attuale anche il profilo del meridionale è diverso rispetto al passato. Per i reati che commette, un italiano non va più in carcere ma viene mandato ai servizi sociali. Gli altri, invece, pur in presenza dello stesso atto delinquenziale, iniziano il processo di detenzione solo perché non hanno una famiglia. Durante i quarantacinque anni della sua missione Gino non ha fatto altro che essere presente per questi ragazzi. Da ieri a oggi a non essere cambiato è il fatto che queste persone rappresentano gli ultimi, i più emarginati. La differenza è data dalla loro nazionalità, visto che i ragazzi di cui Don Gino si prende cura sono per lo più mussulmani, arabi e albanesi.

In questo senso il tuo film è fortemente politico perché l’azione di Don Gino si pone agli antipodi rispetto alle misure invocate, e in parte intraprese, nei confronti di questione come immigrazione e sicurezza.

È un film politico proprio perché supera il pensiero a proposito di un’umanità di serie A e una di serie B e perché si parla della necessità di costruire una comunità che sia di tutti gli individui, laddove nel mondo emergono differenze e ingiustizie come quelle rappresentate dalle banlieu parigine. Gino si comporta al contrario: si prende cura di tutti e nello stesso tempo costruisce comunità in cui la cosa più importante è la relazione. Non si limita a esprimere la necessità di occuparsi di questi ragazzi, ma lo fa in maniera concreta, facendoli sentire stimati e coinvolti. Il ritorno di fiducia suscitato dalla sua azione è il motore che innesca il percorso di crescita comunitario. Prendersi cura dell’altro senza vederlo come un pericolo è un messaggio politico molto forte.

Uno degli obiettivi dell’azione di Don Gino è quello di annullare la distanza che ci separa dagli altri, quella da cui nascono pregiudizi e intolleranza. Seppur su un altro piano, tu e il tuo film fate la stessa cosa, cercando di farci capire che colui a cui stiamo davanti non è diverso da noi.

Assolutamente. Anzi, se fosse stato per me avrei spinto ancora di più il film in questa direzione. Nelle discussioni con il mio montatore ho dovuto un po’ soprassedere perché ho capito che c’era il rischio di essere frainteso. Se avessi messo alcune delle sequenze poi scartate, il concetto di uguaglianza tra noi e gli altri sarebbe uscito in modo ancora più netto.

A proposito di integrazione: verso la fine del film riprendi la festa religiosa dedicata a Sant’Antioco e cioè una liturgia attraverso la quale la società rappresenta se stessa in tutti le sue articolazioni e gerarchie. Rispetto a essa, la parziale partecipazione di Don Gino e dei ragazzi rappresenta una compartecipazione ancora lungi dall’essersi compiuta.

Si, il percorso di integrazione è ancora lungo e lo faccio vedere attraverso la mancata partecipazione di alcuni dei ragazzi alla festa del Santo che, nel caso specifico, rappresenta la tradizione. Nel film la società è presente in diverse forme: la vediamo nel carcere, filmato attraverso una serie di immagini in cui ci sono porte che si chiudono e inquadrature volte a restituire la sensazione di un luogo angusto, come lo sono le costrizioni e l’indifferenza espresse dalle liturgie sociali. Per cui se la vogliamo mettere dal punto di vista dell’integrazione la vera libertà è riuscire a entrare nella “liturgia” e farne parte. Nella film, invece, i ragazzi sono dei corpi estranei poiché la struttura ivi rappresentata è la stessa che li ha messi in carcere. La fatica a partecipare alla festa deriva in parte dal ricordo del meccanismo costrittivo che li ha obbligati a stare in un luogo di reclusione. Nella messinscena della festa miravo a far emergere questo tipo di sensazioni.

La stratificazione di significati del tuo film è profonda e lo vediamo anche da particolari, come quello dell’origine del Santo che non a caso è africano, immigrato e venuto dal mare come molti dei ragazzi di Don Gino. Inoltre, attraverso le immagini sviluppi situazioni ad alto valore simbolico in cui la mancata libertà e integrazione a livello sociale viene compensata sul piano visivo dalla simbiosi tra i ragazzi e la terra.

Si, infatti è stato per questo che ho deciso di filmare la sequenza della festa. La cosa particolare è che il Santo è arrivato sulle coste italiane con una barca. La leggenda dice che sia giunto attraverso un soffio di vento ed è per tale ragione che la festa è legata anche a questo aspetto. Sant’Antioco è stato il primo immigrato.

Tra l’altro, sempre a proposito delle nostre radici, come ci dimentichiamo che il Santo è africano, così ci capita di fare con la figura di Gesù, anch’essa legata al continente che più di tutti alimenta l’immigrazione nelle nostre terre. A conferma di questo c’è la scena in cui uno dei ragazzi compie il cammino inverso fatto secoli prima da Sant’Antioco; il giovane si avvia verso il mare da cui è venuto il Santo, portando a compimento l’unione tra i ragazzi e il paesaggio.   

Talvolta è straordinario il potere evocativo delle immagini. Ho uno zio di Taranto che, passando da Milano, ha visto il film e ha capito che si trattava di un rito: l’attraversamento dell’acqua è il segno di una storia che parla di purificazione, di un nuovo inizio e, come dici tu, di un ritorno alla tradizione del cristianesimo in una maniera molto libera. Andare  verso il mare significa rivolgersi al luogo dal quale sono venuti e, allo stesso tempo, la volontà di purificarsi per dare corso a una nuova esistenza.

Il montaggio certifica l’avvenuta simbiosi tra i ragazzi e l’elemento naturale: ripassando a memoria l’ultima scena vediamo dapprima i ragazzi che vanno verso il mare, con lo sguardo rivolto alla bellezza dei luoghi, e poi, dopo un rapido stacco, scompaiono alla vista dello spettatore, sostituiti da quel paesaggio che li contiene. La vera democrazia, l’unione e l’uguaglianza nel tuo film, si compie nel e attraverso il paesaggio.

Si, il paesaggio è la culla dello stesso primitivismo che ispira l’idea di comunità presente all’interno del film. La libertà diventa possibile quando un individuo si fonde con esso, ove per questo si intenda sia quello naturale che sociale.

La liturgia non è in grado di farlo perché lì a dominare è ancora la sovrastruttura, non a caso assente laddove si compie la vera integrazione.

Nella libertà di quel momento c’è il fatto di essere in totale accordo con la natura. Tenendo conto del termine che hai usato nella recensione in cui hai parlato di impressionismo cinematografico, allora potrei citare il Cezanne de Le bagnanti. Il riferimento non è solo estetico, poiché i pittori francesi di fronte alla società che si stava industrializzando e che faceva sempre più a meno della pittura – surclassata dall’invenzione della macchina fotografica – proponevano un ritorno alla natura, mostrando l’uomo immerso all’interno di essa. Io avrei voluto fare molte scene di nudo con i protagonisti, soprattutto quella finale dove c’è il ragazzo che si butta in acqua, ma lui mi ha detto che essendo mussulmano sua madre ne sarebbe rimasta scandalizzata. In realtà volevo arrivare lì, ovvero alla totale fusione del personaggio con la natura. Poi, certo, il passaggio successivo è quello di integrarsi nella sovrastruttura. In questo stadio essa è ancora qualcosa di costrittivo. Non solo per i ragazzi ma anche per me: in loro mi rivedo perché anche io la considero così, e in qualche modo il rapporto con l’acqua presente ne L’estate di Gino rimanda  a L’Atalante di Jean Vigo in cui il fiume rappresenta la libertà rispetto al consumismo cittadino che la ragazza scopre andando in giro per la città. In L’estate di Gino questo succede anche nelle sequenze girate all’interno del carcere in cui il prete muovendosi all’interno dei diversi ambiente ne sembra ingabbiato alla stessa maniera in cui succede a noi nelle nostre vite.

Nel film decidi di non mostrare mai i ragazzi all’interno del carcere. Come Gino, la cui azione è volta a liberare i giovani dalle catene del proprio passato così fai tu filmandoli quando sono in vacanza, cioè liberi.

Si. L’idea era quella di rappresentare il carcere come un luogo meccanico dove l’umano era costretto e subordinato. L’unico ragazzo che vedi è di spalle e non è riconoscibile. Il senso di libertà che si respira nel film deriva anche dal ricordo della mancanza di emancipazione dei protagonisti, innescato per l’appunto dagli inserti girati all’interno dell’istituto.

Passando da un discorso all’altro, mi hai appena parlato di Vigo e ancora prima abbiamo visto quanto e come il film sia costruito su un piano visivo e simbolico capace di dare vita a una serie molteplice di significati. Mentre lo giravi eri cosciente di questo processo e fino a che punto invece ti sei lasciato andare?

Come sempre quando lavoro c’è una parte cosciente e l’altra no. Quest’ultima mi viene tirata fuori da Luigi Carbone, il mio montatore, con cui collaboro da sempre e che per la profondità con cui entra in ciò che faccio rappresenta la mia anima. Arrivando da lui, dopo aver girato, mi ha detto che avrei fatto meglio a filmare delle interviste perché sarebbe stato difficile tirare fuori qualcosa da ciò che avevo fatto. In quel frangente ho avuto modo di ribadire che senza gli aspetti simbolici e con le testimonianze dei protagonisti il film sarebbe stato uguale a tanti altri e quindi un fallimento rispetto alle premesse. Questo è bastato per farci entrare in sintonia, ed è anche grazie alle sue intenzioni che siamo arrivati al risultato finale.

 

Il montaggio del film è determinante. A proposito del rapporto tra conscio e inconscio, a parte Vigo, nelle immagini dei ragazzi ho visto molto cinema indipendente americano, e tanto per fare un esempio quello di Larry Clark. A ricordarmelo è stato soprattutto il modo di riprendere i corpi. C’è poi un altro aspetto che, invece, a mio parere, ti avvicina al cinema di Roberto Minervini, ed è quello per cui restituendoli attraverso immagini che ne esaltano la bellezza e la purezza in qualche modo risarcisci i ragazzi delle iniquità delle loro esistenze, donandogli speranza e autostima. Un’affermazione del genere ti riguarda oppure no?

Si, nel modo più assoluto. Il mio è un film di purificazione. L’uomo si decontamina quando è a contatto con la natura e L’estate di Gino è un ritorno alle origini in molti sensi. Gli aspetti che hai citato ci sono tutti. Tu parlavi di Larry Clark. Io ti dico che sicuramente abbiamo visto Pasolini e Rossellini anche per quanto riguarda il pedinamento dei personaggi e la messa a contatto dei corpi con il paesaggio. A dir la verità non so come mi sia venuta fuori questa messa in scena. Sentivo il desiderio di non giudicare, ho usato uno sguardo che si tiene sempre a una certa distanza. Ad esempio, quando si parla delle rapine ho evitato di inquadrare il viso dei protagonisti. Sono sempre stato attento a non varcare il confine che separava il fatto di osservarli da quello di valutarne le azioni. Volevo solo raccontare una storia di speranza e di rinascita. Di solito quando andiamo in vacanza ci liberiamo dei nostri problemi immergendoci nella bellezza della natura, negli elementi, nel suono, nella luce, al punto tale da diventarne parte. L’universalità del film sta proprio nel concetto di liberazione dalle costrizioni della società, raccontati attraverso questo momento di sospensione.

L’estate di Gino esplica la sua natura documentaria facendoci conoscere una figura tango rilevante per la storia della città di Milano ma di cui molti, e per esempio io, ignoravano l’esistenza.

Penso che una delle ragioni per cui hai inquadrato cosi bene il film derivi dalla mancata conoscenza del protagonista. Questo ti ha spinto ad affidarti alle immagini senza alcun pregiudizio o retro pensiero. Parlando con il il mio montatore a proposito della tua recensione siamo d’accordo sul fatto che L’estate di Gino troverà molti estimatori lontano da Milano proprio per il tipo di approccio che hai avuto tu.

Una caratteristica di Don Gino è il fatto che la sua santità è visibile a partire dalla sua dall’attitudine: gentile, semplice e mansueta come quella di Gesù.

Lui è un personaggio davvero straordinario. Nello stare insieme ai ragazzi ha qualcosa che non si riesce ad afferrare e che gli permette di ricevere un’attenzione e un rispetto difficile da vedere. Lui parla di droga e lo fa non come siamo abituati a sentire parlarne da un prete. Don Gino ha vissuto in prima persona il dramma provocato dalla diffusione della droga in Italia, all’inizio degli anni settanta. Davanti alla tragedia di migliaia di ragazzi vittime della tossicodipendenza lui si è rimboccato le maniche ed è andato sulla strada nel tentativo di salvarli. Molti gli sono morti tra le braccia. Le storie che mi ha raccontato non sono riuscito a metterle nel film ma è stato meglio così. Lui non avrebbe voluto.

A questo proposito penso che la forma del film sia l’unica con cui potevi restituire Don Gino perché la poesia con cui lo racconti ti permette di celebrarlo senza retorica e, quindi, in piena sintonia con il suo modo di essere.

Dico sempre che Don Gino e gli uomini di Chiesa sono persone votate alla parola, soprattutto Gino, che la usa per comunicare con gli altri. Partendo da questa convinzione, quando ho iniziato a girare mi sono detto che tra l’immagine e la parola doveva vincere la prima. Quello che lui dice parlando ho cercato di costruirlo attraverso le immagini, utilizzando uno stile rigoroso.

Continuando a occuparti della forma, nella scheda tecnica del film ne attesti le caratteristiche ibride definendolo un docufilm. In questa sottolineatura c’è molto di quello che è il tuo modo di fare cinema.

Far diventare il documentario un film è ciò che mi caratterizza. Da sempre utilizzo la struttura narrativa data dalle immagini in movimento come guida per veicolare il contenuto. Per quanto mi riguarda la fase documentaria avviene prima delle riprese, attraverso la ricerca e la conoscenza dei personaggi e delle loro storie; ciò che viene dopo è la messa in scena di quanto ho raccolto, fatta nell’ottica di avvicinarmi allo spettatore in maniera leggera ed elegante, in modo da abbattere la distanze tra gli uni e gli altri. Se le persone di cui parli hanno un vissuto particolare, come quello dei carcerati del Beccaria di Milano, è possibile sentirsi coinvolti rispetto a ciò che dicono, ma a prevalere è la sensazione di non aver molto in comune con loro. Essendo il mio – come dici tu – un film politico, volevo annullare questa separazione. Se hai notato, delle loro esperienze do solo dei brevi accenni, evitando ai personaggi di raccontarsi. Solo in due momenti metto sullo schermo la loro storia, ma stando attento a non rapinarli: faccio raccontare qualcosa al ragazzo dell’Isis perché mi sembrava interessante il suo smarrimento e tenendo conto che nel proseguo del film diventa un personaggio importante, dal momento che Gino decide di adottarlo. Verso la fine c’è il ragazzo che parla del padre alcolizzato. Rinuncio alle interviste a favore di questi due piccoli tocchi che mi consentono di spingermi ancora di più verso una certa direzione narrativa. Il resto è un lavoro di messinscena in cui i ragazzi vengono utilizzati come veri e propri attori. L’obiettivo era quello di coinvolgere lo spettatore in prima persona, un po’ come fanno i fratelli Dardenne. Nei loro film ti fanno vedere persone come Rosetta con cui sembra di non avere nulla da spartire se non il sentimento di disagio scaturito dall’osservarne l’ indigenza. In realtà, un poco alla volta ti rendono parte in causa di ciò che stai vedendo, arrivando a chiederti cosa ti avrebbe impedito di fare le stesse cose se fossi stato al suo posto. Togliendo la parola ai personaggi e facendoli vivere attraverso le immagini, ho cercato di raggiungere lo stesso effetto: presenze e gesti diventano fonte di pura emozione, impossibile da raggiungere se avessi fatto un’intervista.

Nel film il rapporto tra i personaggi e il paesaggio più che dialettico direi che è simbiotico. A dircelo è la sequenza che precede i titoli di testa in cui attraverso il montaggio alternato tu fai corrispondere a ogni personaggio un elemento del paesaggio, come a voler stabilire fin da un subito un rapporto inscindibile tra le due parti.

Tutto questo è la conseguenza del lavoro che abbiamo fatto per formulare il rapporto tra uomo e paesaggio, tra il vento e il mare. Parliamo di elementi fondamentali di cui anche noi siamo composti. Se fosse stato per me avrei spinto ancora di più in questa direzione: quando i ragazzi si tuffano nelle acque antistante la rupe le immagini subacquee le ho girate io. Ero insieme a loro quando sul fondo ci siamo imbattuti in una statua della Madonna. Farla vedere avrebbe rafforzato la fusione tra l’elemento naturale e quello culturale, tra Maria, madre di tutti gli uomini e la Sardegna, madre dei ragazzi. Su consiglio del montatore ho preferito tagliare la scena perché c’era il rischio di di rendere troppo scoperto l’apparato simbolico del film.

Sono d’accordo con lui, perché lavorando di sottrazione fai emergere la poesia con maggiore forza.

Ma infatti è così. Soprattutto nel documentario sono molto rigoroso e capisco cosa devo girare: il materiale raccolto non era molto (circa venti ore) per cui avere al mio fianco un montatore capace di leggermi nel pensiero ha fatto si che riuscissi a concludere senza sacrificare la qualità che avevo in mente.

La musica contribuisce non poco a creare le suggestioni di cui abbiamo parlato.

Si, e questo grazie a Silvia Furlani, giovane talentuosa che si è immersa completamente nel lavoro. Mi sono avvalso di collaboratori di cui mi fido ciecamente, per cui questo ha fatto fare il salto di qualità al film. Gli ho fatto capire cosa volevo, poi le persone ci hanno messo del loro.

L’estate di Gino appare come il seguito ideale de L’assoluto presente. A differenza di quest’ultimo c’è il punto di vista, poiché qui i protagonisti non sono giovani ricchi e viziati, quanto, piuttosto, dei diseredati. Sotto il profilo narrativo, invece, la continuità è molto forte poiché se il primo è il racconto di un  “delitto”, il secondo è incentrato sulle conseguenze del “castigo”.

Si, è il seguito. Tra l’altro Don Gino aveva fatto una piccola parte del film: era il prete che chiedeva l’elemosina. A seguito di quell’esperienza mi aveva detto che gli sarebbe piaciuta ripeterla. Quando mi ha chiamato, chiedendomi di fare qualcosa insieme, abbiamo impiegato un anno per trovare lo spunto giusto: lui voleva fare una cosa sulla sua idea di religione, però non si arriva mai al dunque, poi, improvvisamente, la scorsa estate mi disse che sarebbe andato a Sant’Antioco con i ragazzi e in quel momento ho capito di aver trovato ciò che cercavo. L’assoluto presente era un film che diventava documentario, qui succede il contrario. Il legame tra i due lungometraggi è evidente. Nel secondo non esiste un vero padre, piuttosto colui che riesce a dare dei punti di riferimento; nell’altro c’era, ma solo per trasmettere l’etica dell’individualismo sul modello imposto da Berlusconi. Al contrario, ne L’estate di Gino il prete è una sorta di padre chiamato a incarnare la comunità e a fare da riferimento per il nuovo percorso di vita intrapreso dai giovani.

Dopo essere stato presentato in anteprima a cura della Cineteca italiana, qual’è il percorso che il film si appresta a fare?

Devo dirti che mai come in questo film mi sono sentito in dovere di affrettarmi a terminarlo. La Cineteca me lo ha chiesto dopo solo tre mesi che li avevo contattati in parte perché Don Gino crea molto interesse intorno a lui. Ho finito di montarlo una settimana prima della proiezione senza che nessuno sapesse di questo lavoro. Adesso a Milano se ne sta parlando molto. Come gli altri, anche L’estate di Gino è una sorta di cane sciolto per cui prima o poi troverà la sua strada. In tutta onesta penso che verrà visto molto: stiamo cercando il distributore: potrebbero esserlo Lab 80 ola Cineteca di Bologna. La velocità ci ha impedito di far circolare il film ai festival ma va bene lo stesso.

  • Anno: 2018
  • Durata: 80'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Fabio Martina

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