«Nel mezzo del cammin di nostra vita,
mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura,
esta selva selvaggia e aspra e forte,
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.»
(Dante Alighieri, Inferno, I, vv. 1-12)
Un itinerarium mentis quello di Jack (Matt Dillon), affetto da un disturbo invadente, una vera e propria coazione nevrotica costituita prevalentemente da pensieri ossessivi, associati a compulsioni che tentano di neutralizzare l’ossessione stessa. La spiegazione che Jack fa della sua sindrome, attraverso un’accurata descrizione accompagnata da disegni animati, evidenzia la sua nevrosi, la sua inesauribile ricerca della perfezione tramite l’analisi dettagliata e lo studio di ogni particolare. Un dialogo serrato con il suo Verge (Bruno Ganz), che Jack interpella continuamente individuando in lui un mentore, un referente intellettuale e spirituale al quale poter illustrare i motivi della sua ricerca della perfezione e della ossessione a compiere delitti. Decine di omicidi che commette in un arco di 12 anni, perché il serial killer è come un banale ingegnere che sa tecnicamente come uccidere, ma vuole diventare un architetto, un artista dell’omicidio e il livello della creatività che vuole raggiungere per costruire la sua casa toccherà livelli sorprendenti. I ricorrenti video su Glenn Gould, con le sue inusitate scelte di stile e di repertorio, di continua ricerca, anche in modo ossessivo, di pianoforti dalla meccanica rapida e scattante che rispondano alle sfumature del tocco, vogliono sottolineare l’esigenza incontrollabile di Jack di individuare la perfezione; così come tutta la successione dei più svariati rimandi alle incisioni di William Blake, ai disegni delle cattedrali gotiche, ai quadri di Paul Gauguin, agli scritti di Johann Wolfgang von Goethe sono affiancati senza particolare interruzione di continuità da immagini di aerei militari, di campi di sterminio, fino all’autocitazione visiva di Lars von Trier attraverso un collage antologico di fotogrammi dei suoi film precedenti.
Il suo viaggio psicoanalitico, introspettivo, la sua confessione umana, troppo umana, interviene pertanto con precisione chirurgica sulla conoscenza del sé e del mondo e sull’esigenza di agire sui corpi, per congelarne la vita (come pizze in scatola), le espressioni, i movimenti, per imbalsamare attraverso essi la creazione e la sublimazione artistica. Come tanta filosofia insegna, solo l’arte consente il doppio sguardo, la parziale dis-alienazione, la possibilità di interrompere la violenza della volontà di vivere, l’opportunità di produrre la superficie in virtù di un’abissale profondità. E von Trier con tutte queste citazioni, immagini, rimandi, ricorre, per amore del grottesco e del tragi-comico, al serial killer e alla sua inarrestabile ricerca della sublimazione, in quanto “la selva oscura” della vita non può ritrovare “la diritta via” e il tracciato è così aspro e mette una tale paura che la morte è poco più di questo. Pertanto solo un rapporto stretto con la paura e la morte può consentire l’atroce giustificazione estetica dell’esistenza e chi, meglio di un assassino seriale, ossessivo compulsivo che cerca di costruire un monumento artistico alla morte e alla vita può fare tutto ciò? E se alle donne e ai bambini si dedica un intervento individuale, per gli uomini, come spesso accade nei film di Von Trier, si concede un unico full metal jacket che possa consentire un plotone di esecuzione al risparmio.
Jack è l’essere umano che, meglio del funzionario della specie e dell’ignavo dantesco, sublima, costruisce e crea ossessivamente e compulsivamente anche la propria autodistruzione e sebbene arrivi a consapevolizzarsi, comprendere e a confessare la propria colpa e con essa la responsabilità, nessuno lo ascolta, né lo ascolterà, perché l’indifferenza regna, l’abulia comanda, la vigliaccheria vince e il processo è ormai irreversibile. Ogni episodio, ogni omicidio è come i film di von Trier: un crimine, l’atto di un artista psicopatico, serial killer, che ripete sempre lo stesso delitto in modi diversi, con una ricerca della perfezione, ossessiva compulsiva. Sperando non lo sia, quello di von Trier sembra un testamento artistico, nel quale Jack incarnerebbe Lars, gli omicidi le opere cinematografiche compiute con maniacale perfezione, Verge il suo percorso confessionale/psicoanalitico, l’inferno la condizione umana, l’arte l’unica meravigliosa e tragica consolazione. The House That Jack Built è una commedia molto laica, poco divina, ma altrettanto spirituale, che non consente salvezza seppur artisticamente, scrupolosamente perseguita. Dopo i meravigliosi tableaux vivants e l’ultimo vano tentativo di salvezza, l’esplosiva e sarcastica canzone chiude il faticoso cammino: Parti jack e non tornare più!