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In the name of the king: quando Uwe Boll diresse Jason Statham

Segnali dall’universo digitale. Rubrica a cura di Francesco Lomuscio

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Nelle sale cinematografiche italiane abbiamo avuto modo di vederlo durante i primi mesi del 2009, ma, in realtà, fu due anni prima che il prolifico cineasta tedesco Uwe Boll mise in piedi lo spettacolare In the name of the king, derivato dal videogioco Dungeon siege e che, di conseguenza, come altri suoi lavori quali House of the dead e Alone in the dark, si andò ad aggiungere alla sfilza di CineVgame che lo resero, in un certo senso, specialista del filone.

Una colossale produzione da sessanta milioni di dollari che, generatrice, poi, di due sequel a firma dello stesso Boll e impreziosita da un ricco cast, CG Entertainment (www.cgentertainment.it), in collaborazione con Minerva pictures, rende disponibile su supporto dvd.

Una colossale produzione (una delle più costose sfornate dalla Germania) narrativamente sviluppata su due binari paralleli: da un lato abbiamo il semplice contadino Farmer del villaggio di Stonebridge che, incarnato dall’icona action Jason Statham e affiancato dal cognato Bastian alias Will Sanderson e dal suo mentore Norick, ovvero il Ron Perlman che ha concesso per due volte anima e corpo al supereroe rosso Hellboy, si muove all’inseguimento dell’esercito dei Krug, energumeni responsabili della morte del figlio e del rapimento di sua moglie Solana, dal volto della Claire Forlani di Vi presento Joe Black; dall’altro il John Rhys-Davies de I predatori dell’arca perduta nei panni di Merick, che, mago del Re Konrad interpretato da Burt Reynolds, ha scoperto che il vecchio rivale Gallian dal volto di Ray Liotta, a capo dei barbari assassini, è intenzionato a detronizzare il sovrano per far insediare il duca Fallow, cui concede i connotati MatthewScreamLillard, debole pedina nelle sue mani.

Il John Rhys-Davies proveniente dalla pluripremiata trilogia de Il Signore degli anelli di cui, in maniera evidente, le oltre due ore cercano di ricalcare il look generale, dalle scenografie e dall’utilizzo delle musiche.

Del resto, soprattutto all’epoca della realizzazione del film, la monumentale opera di Peter Jackson rappresentava un vero e proprio punto di riferimento per tutti coloro che desideravano cimentarsi in avventure in fotogrammi incentrate su maghi e guerrieri.

Sebbene, al di là del ricorso ad immancabili effetti digitali, la sola figura dei Krug non può fare a meno di ricordare le creature che affollavano determinati, rozzi prodotti fantasy risalenti agli anni Ottanta (vi dicono nulla L’anello incantato di Héctor Olivera e il suo pseudo-sequel Il regno dei malvagi stregoni di Charles B. Griffith?) e concepiti sulla scia del successo riscosso da ormai classici e cult del calibro de La storia infinita di Wolfgang Petersen e e Legend di Ridley Scott.

Rozzi prodotti nei confronti dei quali In the name of the king sembra spingere lo spettatore a guardare con una certa nostalgica tenerezza; man mano che Boll, allora ingiustamente definito dalla critica come peggior regista vivente, distribuisce a dovere l’azione supportato dalle coreografie di combattimento per mano di Ching Siu-Tung (Shaolin soccer e La foresta dei pugnali volanti nel ricco curriculum).

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