Arriva sulla Terra da un pianeta lontano, è braccato dall’esercito americano, stringe amicizia con un adolescente. Se avete un déjà vu, se la trama vi suona familiare e vi fa pensare all’extra-terrestre più famoso nella storia del cinema non avete tutti i torti. E, infatti, sui titoli di coda di Bumblebee tra i produttori esecutivi spunta il nome di Steven Spielberg, che campeggia anche sul poster de I predatori dell’arca perduta, ben visibile nella cameretta di uno dei protagonisti. Fortunatamente, in questo prequel/spin-off della saga dei Transformers, Michael Bay figura “solo” in veste di produttore mentre la regia è affidata a Travis Knight. Se il suo nome non vi dice niente andate a vedervi Kubo e la spada magica, un piccolo gioiello d’animazione in stop-motion con cui ha esordito alla regia un paio d’anni fa.
In Bumblebee gli scontri cruenti e tonitruanti tra Autobot e Decepticon rappresentano solo la cornice fracassona, si limitano a poche scene, al contrario dei cinque film della saga realizzati da Michael Bay, dove sono talmente lunghi, invasivi e predominanti da sfiancare il pubblico d’ogni età. Qui appunto la guerra tra robot è marginale e funzionale a una storia calata con perfezione estetica, filologica e ideologica negli anni ’80. Ambientato nel 1987, Bumblebee non si limita a citare o saccheggiare l’immaginario di un decennio divenuto un filone inesauribile e immarcescibile (quasi un genere a se stante) per l’industria hollywoodiana contemporanea, ma riesce nell’intento di sembrare, uso della CGI a parte, un film girato e prodotto negli anni ’80. Ne conserva lo stesso spirito naïf, un po’ ingenuo e romantico, l’identico approccio; alcune frasi e battute paiono scritte all’epoca, così come le facce e le corporature di certi attori sembrano pescate da quel periodo (ad esempio guardi John Cena nei panni dell’agente Burns e non puoi non pensare a Schwarzenegger).
Poi, certo, ci sono le canzoni dei gruppi di quel periodo lì (gli Smiths, i Duran Duran, i Tears for Fears) già sentite in decine e decine di film, le strizzate d’occhio a titoli di culto degli anni ’80, come il riferimento a più riprese a Breakfast Club di John Hughes, però non sono mai fini a se stesse. Ed è un peccato che il bel film di Travis Knight venga bollato e frettolosamente etichettato come un semplice spin-off dei Transformers, perché le ambizioni sono ben altre, sebbene in parte taciute e mascherate per non sembrare un reato di lesa maestà, ovvero di dar vita a una specie di remake di E.T. – L’extra-terrestre. Nato col preciso intento di rinverdire l’immaginario anni ’80 (quasi) dal di dentro, provando a tornare indietro nel tempo, senza limitarsi a osservarlo da lontano con un facile e furbo citazionismo da due soldi (ogni riferimento allo scialbo e incolore It di Andy Muschietti è puramente voluto). Del resto è abbastanza palese che la parentela con la saga cinematografica ricavata dai giocattoli prodotti dalla Hasbro verso la metà degli anni ’80 non è poi così stretta.
Nei film di Bay l’elemento e i sentimenti umani sono in secondo piano, la scena è tutta per i robottoni e le loro infinite e estenuanti battaglie. Qui invece è l’esatto contrario, siamo in presenza di un riuscito e ispirato coming of age, con la giovane protagonista, Charlie, interpretata dalla bravissima Hailee Steinfeld, che riprende in mano la propria vita attraverso l’incontro col tenero e dolce maggiolino-robot che a sua volta riprende – letteralmente – a vivere grazie all’aiuto della ragazza. Entrambi si rimettono in pista e iniziano insieme un nuovo percorso, irto di ostacoli e difficoltà, che in seguito, dopo un commiato delicato e struggente, continueranno ognuno per conto proprio, più forti e determinati che mai. Un film, quello di Travis Knight (che rischia purtroppo di non raggiungere il proprio target, di essere visto principalmente dai fan della saga dei Transformers e di essere scartato a priori da chi non la ama), dove la componente umana è preponderante, in cui il buffo e irresistibile Bumblebee è più umano degli umani.