L’unico modo per fare una comparazione opportuna tra l’originale di Dario Argento del 1977 e la “rivisitazione” di Luca Guadagnino è concentrarsi sul “metodo”, evitando di incagliarsi sulle differenze della narrazione che, inevitabilmente, producono scarti incolmabili tra il primo e il secondo film. Se Argento riuscì a ridurre, fino a comportarne la scomparsa, la visibilità della ‘causa del fenomeno’, di ciò che normalmente si ritiene celarsi dietro esso, Guadagnino, di contro, pur dando corpo a una messa in scena senz’altro efficace, non si sottrae alla tentazione di manifestare “l’essenza attraverso l’esistenza”, ovvero di materializzare fin da subito il fantasma. All’inizio del film del 1977 si vedeva la giovane Susy Benner muoversi negli spazi anonimi e minimali dell’aeroporto di Friburgo: il Male era lì ad attenderla. Le porte automatiche si aprivano e già era ben udibile il rumore di una presenza che, va da sé, era anche un’assenza. Questo esser presente senza apparire, senza attualizzarsi, senza manifestarsi in quanto fenomeno, rendeva gli spettri evocati da Argento una Potenza che riusciva a farsi percepire pur non mostrandosi. Nel remake (o cover, o come volete), invece, assistiamo chiaramente alle riunioni tra le streghe che, niente meno, devono stabilire chi tra di loro sia la mater suspiriorum, la più antica e potente, quella che dovrà prendere le redini della malefica congrega. L’incarnazione – l’umanizzazione – del Male provoca una rovinosa caduta dalle vette della poesia del film di Argento alla bassa quota della prosa di quello di Guadagnino.
Se seguissimo Guadagnino sulle varianti apportate dalla nuova sceneggiatura, certamente interessante, scritta da David Kajganich (già autore dello script di A Bigger Splash), rischieremmo di non mettere a fuoco la questione centrale, che rende i due film “incommensurabili”, la quale è interna allo statuto ontologico dell’immagine. Se nel finale di Suspiria del 1977 la provvidenziale pugnalata della protagonista dava estemporaneamente corpo alla figura di una donna centenaria (Helena Markos), decrepita e disgustosa – un corpo in decomposizione che ‘resiste’ e ‘insiste’ (se vi piace, si potrebbe definirlo, utilizzando il gergo lacaniano, ‘lamella’) -, nel film di Guadagnino la sessione interminabile delle streghe di nuovo riunite per contendersi lo scettro scade in un eccesso di visibilità che, quantunque non privo di fascino, collude con la logica della rappresentazione. Rappresentazione raffinata, ma imbolsita da un affastellamento di argomenti che paiono giustapposti per fornire un diversivo che non era richiesto, gratuito, che non aggiunge alcunché alla sterminata cinematografia che si è confrontata con tali questioni. La suddivisione in sei capitoli e un epilogo, poi, sembra quasi una parodia involontaria di un film di Lars Von Trier. E l’altra, decisiva osservazione che può, anzi deve, essere senz’altro mossa è che il nuovo Suspiria non emoziona mai, laddove lo spettatore invece di essere attraversato da potenti significanti, come accadeva nel film di Argento, cerca di venire a capo dell’ingarbugliata trama, in cui trapela un certo compiacimento per una malcelata mancanza di chiarezza architettata ad arte per rendere l’insieme più criptico e affascinante.
Nel film di Argento la fugace e mostruosa apparizione di Helena Markos costituiva un ‘resto’ visivo che provocava, per un istante, la rovinosa ricaduta idolatrica del prototipo. La potenza, che è la premessa logica e ontologica dell’atto, per natura incommensurabile a esso, veniva schiacciata, per pochi fotogrammi, sul ‘visibile’, comportando un’esplosione generante ‘mostri’, cadaveri, corpi in putrefazione, orrori di ogni genere, sempre insufficienti, pur nella loro sconvolgente apparenza, a rendere conto della pienezza di qualcosa che, quantunque non cessi di segnalare la propria presenza, è confinato in un fuori campo assoluto irraggiungibile. In Suspiria di Guadagnino, di contro, l’incarnazione del fantasma impedisce sin da subito di poter accedere al tempo emotivo, a una durata (bergsoniana) che si opponga eroicamente allo scialbo nesso di causalità che lega i fenomeni, alla iattura della successione cronologica, tanto è vero che il film è inquadrato in un preciso contesto storico (il 1977 a Berlino), circostanza che desacralizza – si conceda l’iperbole linguistica – la sublime trasfigurazione operata da Dario Argento.
In conclusione, Luca Guadagnino non ha fatto un brutto film, c’è del buono senz’altro, ma i capolavori, molto probabilmente, dovrebbero essere contemplati, ammirati e non importunati.