Film da Vedere

Miracolo a Le Havre, “il cinema degli ultimi” di Aki Kaurismäki

I miracoli accadono. In Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismäki il lieto fine che riempie gli occhi di speranza non è l’esito di una sceneggiatura scritta da qualche anima bella, ma la meditata conclusione di un percorso di lotta che vede l’alleanza tra quegli individui “senza parte” (gli esclusi) delle società occidentali e i rappresentanti dei flussi migratori

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Miracolo a Le Havre (Le Havre), un film del 2011 diretto da Aki Kaurismäki. Il film è stato prodotto dalla compagnia finlandese di Kaurismaki, la Sputnik, insieme co-produttori internazionali in Francia e in Germania. È il secondo film di Kaurismaki in francese dopo Vita da bohème del 1992. Kaurismäki ebbe l’idea di un film su un bambino africano che arrivava in Europa tre anni prima di cominciare a produrlo. Pensò dapprima di ambientare la storia a Marsiglia, poi ad alcune città marittime spagnole e portoghesi e infine decise di ambientarlo a Le Havre, che trovò ideale per le riprese. Il budget è stato di 3,8 milioni di euro, incluso un supporto di 750 000 euro dalla Fondazione finlandese per i film. Il film ha ottenuto una candidatura ai David di Donatello, quattro candidature e vinto un premio agli European Film Awards, due candidature ai Cesar. Con Jean-Pierre Léaud, Kati Outinen, Jean-Pierre Darroussin, André Wilms, Elina Salo, Evelyne Didi, Blondin Miguel.

Sinossi
Marcel Marx un calzolaio di Le Havre, trascorre una esistenza modesta ma tranquilla al fianco di sua moglie. Non sa però che la donna cova una malattia grave che fino a quel momento gli ha nascosto. Quando la donna capisce di non poter più mentire, per Marcel il colpo è durissimo. Così, mentre vaga sconvolto per il porto di Le Havre, incontra un ragazzino africano, un immigrato clandestino che in ogni istante è minacciato di essere allontanato. Marcel si affeziona al ragazzo e si mette così in testa di proteggerlo.

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I miracoli accadono. Nell’ultimo film di Aki Kaurismäki, presentato in concorso al Festival di Cannes, il lieto fine che riempie gli occhi di speranza non è l’esito di una sceneggiatura scritta da qualche anima bella, ma la meditata conclusione di un percorso di lotta che vede l’alleanza tra quegli individui “senza parte” (gli esclusi) delle società occidentali e i rappresentanti dei flussi migratori; si organizza una resistenza che fornisce una nuova soggettività, innescando un movimento di sottrazione al ‘comando’ capitalista.

Lo stile del regista finlandese è più o meno il medesimo: i personaggi sono sempre i reietti, i diseredati, confinati in qualche ghetto generato da un’attenta politica dell’esclusione che investe la maggior parte delle strutture urbane delle metropoli ‘imperiali’; gli ambienti, sia esterni che interni, sono contrassegnati da un minimalismo che de-temporalizza la rappresentazione, facendo emergere il lato ridicolo del progresso tecnologico, che appare come una produzione compulsiva di beni destinati a divenire, in tempi brevissimi, rifiuti (le discariche occupano quasi sempre un ruolo decisivo nella topologia scenica dei film di Kaurismäki). I volti sono impietriti, gli sguardi spenti, i passi strascinati e stanchi.

A ridare linfa a un microcosmo morente è la presenza di un giovanissimo immigrato di colore, un ragazzino sfuggito ai controlli della polizia, di cui il protagonista, Marcel Marx (Andrè Wilms), un non più giovane lustrascarpe, moderato bevitore e vagamente charlottiano, si prende cura, tenendolo nascosto. La moglie (Kati Outinen) amministra scrupolosamente l’economia domestica, finché non viene colpita da un male incurabile. È a partire da questa situazione che Marcel matura la volontà di fare del suo meglio per tutelare le sorti del ragazzo. Un commissario lungimirante, uscito come un folletto dalla sceneggiatura (Jean-Pierre Daroussin, attore sempre presente nelle pellicole di Robert Guédiguian), si rivelerà decisivo, impedendo il rimpatrio del piccolo (da segnalare, infine il cameo di Jean-Pierre Léaud). E, miracolosamente, la moglie del protagonista guarisce, rovesciando uno sciagurato epilogo.

I tre personaggi chiave attorno cui è costruita la storia – Marcel, il piccolo immigrato e il commissario – tessono un’alleanza inedita, perché anche chi dovrebbe essere il custode dell’ordine cede alla necessità di dare un contributo (decisivo) alla risoluzione della vicenda. Che sia questa “la moltitudine”, cioè un insieme aperto che accoglie al suo interno individui eterogenei mossi dal comune intento di smarcare il muro semiotico del capitale? Lasciando in sospeso la domanda, possiamo affermare che quello di  Kaurismäki è stato sicuramente il film più politico del festival di Cannes e dispiace davvero che non abbia ricevuto alcun riconoscimento.

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