Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità: il mistero dell’atto creativo secondo Julian Schnabel
Ciò che rimane più impresso del bel film di Julian Schnabel sull’ultimo periodo della vita di Vincent Van Gogh sono le camminate furiose del pittore, che con voracità visiva si addentrava nei paesaggi del Sud della Francia per coglierne la luce, i colori, la divina essenza, con furore mistico, mosso dal desiderio di svanire in essi, di divenire esso stesso paesaggio, per raggiungere un’osmosi attraverso cui poter successivamente produrre una trasfigurazione sublime della realtà
Ciò che rimane più impresso del bel film di Julian Schnabel sull’ultimo periodo della vita di Vincent Van Gogh sono le camminate furiose del pittore, che con voracità visiva si addentrava nei paesaggi del Sud della Francia per coglierne la luce, i colori, la divina essenza, mosso dal desiderio di svanire in essi, di divenire esso stesso paesaggio, per raggiungere un’osmosi attraverso cui poter successivamente produrre una trasfigurazione sublime della realtà. Si, perché è bene precisare – giacché spesso si tende ad abusare del concetto – che solamente la grandissima Arte è in grado di superare la rappresentazione verso la trasfigurazione, che è un’operazione grazie a cui si realizza un deformazione innovativa e rigenerante del mondo in cui, innanzitutto e per lo più, ci muoviamo: i fenomeni di cui siamo spettatori acquisiscono nuova forma e senso, indicando orizzonti inediti da percorrere, sul piano etico ed estetico. Ed è a partire dalle visioni, dalle voci che lo attraversavano, insomma dalla psicosi – che non è solo un serio e doloroso disturbo mentale ma anche uno sprofondamento meraviglioso che consente di penetrare il mistero del tempo e dello spazio, evadendo dai limiti angusti dell’ordine simbolico in cui siamo saldamente inseriti – che Van Gogh poté rivoluzionare lo sguardo sulla realtà, mettendo la vita, la sua, intensa e tragica, sulla tela: la consistenza materica della sua pittura (la densità e l’escrescenza magnifica dei suoi colori) è commovente. È come se nei suoi quadri fossero appesi brandelli di vita strappati dal corpo e donati eroicamente a noi che, ad essere sinceri, neanche li meriteremmo.
E Willem Dafoe, giustamente premiato con la Coppa Volpi al Miglior Attore alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, è bravissimo nel rendere la fragilità, la mitezza e la follia del grande pittore, fortunatamente sempre sostenuto dall’amore del fratello Theo (Rupert Friend), con cui tra l’altro, come è noto, intrattenne un densissimo rapporto epistolare, grazie a cui oggi possiamo risalire al suo pensiero e comprendere in parte i demoni che lo agitavano. Schnabel mette anche sufficientemente a fuoco l’incontro tra Van Gogh e Paul Gauguin (un ancora una volta in parte Oscar Isaac), scandito da un’ambivalenza di sentimenti, da un’insormontabile incomprensione dovuta all’impossibilità di coniugare il “misticismo naturalistico” del pittore olandese e “l’esotismo anarchico” di quello francese, sebbene non sia mancato un reale e intenso affetto tra i due, i quali condivisero insieme lunghi e importanti momenti.
Poi, Van Gogh e il mondo intorno a lui, quei contemporanei incapaci di comprenderne il genio, laddove la lungimiranza del suo sguardo si scontrò ripetutamente, e forse comprensibilmente, con la miopia di un’epoca non ancora in grado di sganciarsi dagli stilemi tipici di una pittura classica, esibita negli spazi museali ufficiali e decrepiti. La luce di Vincent era troppo intensa, abbagliava gli occhi e le menti di un’umanità irrimediabilmente inadeguata a coglierne ed apprezzarne il miracolo.
La sceneggiatura dello stesso Schnabel e di Jean-Claude Carrière (autore e redattore teatrale, scrittore di romanzi, poeta e saggista, sceneggiatore anche di molti e significativi film di Luis Buñuel, Marco Ferrei, Milos Forman e Jacques Deray) dà corpo a una messa in scena efficace, non priva di guizzi, mossa dal desiderio di svelare ciò che si cela dietro l’atto creativo, il che, è evidente, era un compito tutt’altro che facile. Sebbene non scada mai nell’agiografia, Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità non riesce a svincolarsi completamente dai canoni tipici del film biografico, ma quello che potrebbe sembrare di primo acchito un limite in realtà costituisce un elemento necessario per avvicinare un folto pubblico all’essenza della vita e dell’arte del celebre pittore. E, in questo senso, il cinema recupera la sua determinante funzione di testimonianza, di stimolo a recuperare e conservare con amore ciò che è il nostro patrimonio artistico e culturale.