Ne L’amica geniale lo scorrere del tempo è un carattere fondamentale, una dinamica delle funzioni che inserisce gli individui in corsi precisi e in schemi altrettanto distinti. Il salto temporale è, non a caso, una delle migliori intuizioni attraverso cui la serie esplicita il senso del destino, il peso di un fato che si annuncia concretamente come una forza che fa passare gli anni mentre gli individui non si spostano, non cambiano e non si modificano: la loro condanna è essere incatenati in binari fissi, imprigionati dentro un’ellisse che taglia fuori dai giochi la possibilità di cambiare qualcosa o anche solo di immaginare una differente direzione; non c’è musica nel suono dei secondi per i personaggi, non c’è la sinfonia del divenire del cambiamento, piuttosto la funerea sensazione di un passare che non lascia né scampo né respiro. Saverio Costanzo ha dimostrato, con il terzo e quarto episodio, di saper catturare la sensazione inconscia del passare del tempo, trasformandola in un’evidenza possibile per gli occhi, in un movimento concreto che può essere analizzato, interpretato e introiettato dall’occhio di chi guarda.
La regia si adagia sugli ambienti, utilizza l’eleganza dei movimenti di macchina – galleggianti nello schema rigido della scenografia volutamente artefatta – e la forza connotativa del montaggio – funzionale a rendere le cesure emotive – prima per suggerire la velocità e la collaterale dolcezza con cui sfumano i giorni, poi per presentare gli amabili resti di questo incessante fluire. In questo modo individua causa ed effetto di un fenomeno di cui i personaggi non sono consapevoli. Il tempo non è compreso dai protagonisti della narrazione ma è compreso dagli spettatori: i primi ci vivono dentro, i secondi ne vedono gli effetti, ne ascoltano i passi, ne riconoscono l’azione. L’impostazione registica di Costanzo, che è attentissima alle differenze tra passato, presente e futuro nella serie, è capace di tematizzare il tempo come un agente di tensione, che crea disparità conoscitiva tra narrazione e visione. I personaggi del rione cambiano come se non fosse una loro scelta; le cose succedono e funzionano per loro come una corrente da cui è impossibile scollarsi. Al di là dello schermo, si riconosce la condizione di cattività di individui presi in ostaggio da una forza oggettiva inarrestabile.
C’è quindi il tempo, che è tempo storico, psicologico, sociale, emotivo. Ci sono i suoi prigionieri, che sono, gioco forza, anche prigionieri della Storia, delle psicologie, della società e delle emozioni. Causa di enorme proporzione tragica e effetti dell’impossibilità di modificare il cambiamento: per tutti i personaggi, buoni e cattivi, controversi e limpidi, intelligenti e stupidi. Tranne che per Lila (interpretata ora da Gaia Girace). L’amica geniale di Lenù (Margherita Mazzucco) è fuori dal tempo e, invece di viverlo, lo guarda danzare. È questa la “smarginatura”, il distacco conoscitivo dal tempo presente, il momento dello squarcio nel cielo di carta, l’epifania: rendersi conto degli effetti del mondo sulle persone, sugli affetti, sugli amori e soffrire di quella sofferenza che prova l’occhio non allineato al mondo e l’orecchio che sente diverso suono. Costanzo deduce questa invenzione narrativa, propria del romanzo, che vede Lila come la detentrice di una rivelazione sconvolgente, con un’intuizione visiva altrettanto brillante. Se prima la macchina era sempre in movimento, quasi a tentare di riprodurre il movimento del tempo, nelle scene in cui Lila prende coscienza rimane ferma: non più immagine movimento ma movimento nell’immagine, non più montaggio connotativo ma montaggio interno, sovraesposizione, assenza di contorni. Tempo ripiegato dentro allo spazio dell’inquadratura, riconsegnato al controllo del pensiero.
Leonardo Strano