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Baby: la nuova serie tv Netflix Italia ispirata allo scandalo romano delle baby squillo

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Ohhh girls just want to have fun”, cantava Cindy Lauper qualche annetto fa. Mentre Andrea De Sica, più recentemente, esordiva su grande schermo (con qualche applauso di troppo) raccontando dei figli della notte italo-belgi. Inconsapevoli l’uno dell’altro, sembrano oggi miscelati insieme per raccontare le baby squillo dei Parioli nell’attesissima e già discussa Baby, serial Netflix con la superstar prodige Alice Pagani, già stella che dispensava piacere a pagamento per Sorrentino.

Ora, non che De Sica (discendenza nota) non abbia già un suo stile ben marcato: certo non originale ma suo, perché senza ricorrere ad echi mitteleuropei – qualcuno ha parlato, a sproposito, di Refn – il citato I Figli Della Notte presentato a qualche TFF fa metteva in mostra le sue indubbie capacità. Che sono quelle di sapere cosa sia uno storytelling, di avere buon occhio e buona mano, di tenere l’atmosfera e di sapere inquadrare i suoi attori: peccato che il rovescio della medaglia siano un’aria ultrapatinata che soffoca le già di per sé spente suggestioni etiche, nonché una narrazione stanca, una grammatica cinematografica annoiata e ripetitiva, buona per una qualsiasi fiction da prima serata in Rai.

Tutto questo non perché Baby sia brutta: ma perché fa recuperare quell’aggettivo che tanto poco serve al cinema e all’audiovisivo quanto poco serve il prodotto per cui si usa, ovvero inutile. Baby è una serie inutile.

Inutile nelle rappresentazioni geografiche: la contingenza spinge la produzione a rendere la storia fruibile per tutti i 190 paesi in cui verrà distribuita. Consecutivamente, l’ambientazione deve essere riconoscibile per tutti, ma l’unico risultato è che per accontentare tutti non si accontenta nessuno: una scuola privata in pieno centro di Roma con tanto di divise riporta alla mente solo appannati ricordi di seriali d’oltreoceano con ragazzotti bellocci e storie dalla durata drammatica di una sera.

Perché proprio sembra, come si diceva con la Lauper in apertura, che le ragazze vogliano solo divertirsi: nessun dramma dura più di un battito di ciglia, pronti a scivolare nel colpo di scena successivo, per di più con quella regia anonima e da deja-vu che rende i sei episodi imprevedibilmente lunghi e duri da digerire. C’è anzi una piccola, timida impennata negli 03-04, perché lì la mano alla mdp la mette Ada Negri (che tutti ricordano per il suo precariato generazionale ed esistenziale nel bellissimo Riprendimi del 2008): ma è robetta da poco, perché il finale (?) di stagione inanella una situazione incredibile dopo l’altra in uno strazio di scrittura e messa in scena. Come dire, tutti i nodi vengono al pettine e tutte le storie raggiungono una conclusione che non è né emotivamente liberatoria né catartica; mentre l’aggancio con l’attualità e la storia vera da cui è tratto questo innocente pastrocchio tarda ad arrivare, e quando arriva si rivela più sfilacciato di quanto avrebbero voluto farci credere.

Assente la politica (parte integrante dello scandalo del 2014), assente l’oscenità adolescenziale e assenti i coinvolgimenti dei genitori: resta solo qualche pruderia giustificata  e giustificabile, che rende Baby uguale in tutto e per tutto a tantissimi altri prodotti mainstream che parlano, poco e male (vedi Tredici, dello stesso Netflix) di problemi adolescenziali. Non fa niente per aiutare la colonna sonora affidata ad autori trap ossessivamente presenti, nonché ai modaioli Maneskin e The Giornalisti, tutti lontani anni luce da quel prodotto di lacerante urgenza che sembrava stesse per arrivare.

Ed ecco che quindi ancora di più Baby sprofonda in un oblio da cui difficilmente si risolleverà: e dispiace per il carisma della Pagani, per la bravura della sua sodale Porcaioli, ma anche e soprattutto per gli affaticati camei importanti della Ferrari, di Calabresi, di Ragno. Tutti presi nella rincorsa per mostrare quel nerbo che non c’è: tutti che affondano in una barca troppo piena di stereotipi. Per una rivoluzione televisiva che forse, troppo audaci, tutti noi ci aspettavamo diversa.

 di GianLorenzo Franzì 

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