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Manta Ray di Phuttiphong Aroonpheng, primo film thailandese all’Across Asia Film Festival

Dopo la vittoria come Miglior Film nella sezione Orizzonti dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia, approda in Sardegna, a rappresentare la Thailandia in occasione dell’Across Asia Film Festival, un’altra pregiatissima opera, l’incantevole lavoro di Phuttiphong Aroonpheng dal titolo Manta Ray

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Dopo la vittoria come Miglior Film nella sezione Orizzonti dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia, approda in Sardegna, a rappresentare la Thailandia in occasione dell’Across Asia Film Festival, un’altra pregiatissima opera, l’incantevole lavoro di Phuttiphong Aroonpheng dal titolo Manta Ray. Il regista thailandese, classe 1976, con all’attivo già una serie di cortometraggi pluripremiati e dopo aver lavorato come direttore della fotografia in diverse produzioni importanti(Vanishing PointThe Island Funeral, Dolphins), sfodera al suo primo lungometraggio un vero e proprio colpo da maestro, dando vita a un lavoro estremamente dolce e delicato e nello stesso tempo potentissimo. È palese già dalle prime scene e durante tutta la visione l’esperienza e il passato dell’autore da direttore della fotografia, che in questo caso è davvero straordinaria e rappresenta una componente incredibilmente suggestiva del film, conferendogli un fascino particolare e potenziando l’intensità dei contenuti rappresentati e trasmessi. Attraverso una narrazione lenta e dilatata, nella quale spiccano pochissimi dialoghi essenziali e la successione di immagini sempre molto affascinanti e avvolgenti, tipiche delle meravigliose vedute del sud est asiatico, lo spettatore ha la possibilità di assorbire e assaporare gradualmente e in modo particolarmente intenso tutto il magnetismo e la grazia di un’atmosfera pregna di incanto e di magia.

Il film, ambientato in un piccolo villaggio costiero, è dedicato alla tragedia dei  rifugiati Rohingya, annegati a migliaia nel mare della Thailandia nel quale sono stati costretti ad avventurarsi alla ricerca di salvezza dopo essere stati perseguitati in Birmania. Anime ancora presenti, che si sentono, di cui si percepisce la voce, di cui si vede la luce, che riempiono ancora lo spazio, pur senza avere un corpo, una consistenza fisica, un’identità. Ed è quando una di queste anime prende forma e consistenza, che ci viene trasmessa la sua umanità e con essa la sua perdita, nel suo specchiarsi nella vita di un uomo, nel vivere nella sua casa, nel vestirsi come lui, nell’assumere anche le sue fattezze fisiche fino a innamorarsi della sua donna e prendere il suo posto, quasi a dire che, come lui, avrebbe meritato un corpo, un amore, una vita. Un’anima muta, non a caso, incapace di spiegarsi, di raccontare la sua storia, di dare valore alla sua identità, di dire il suo nome, anche questo gli viene dato da chi lo accoglie, probabilmente perché sono tutte cose che gli sono state tolte, per le quali nessuno ha reclamato o lottato, che sono rimaste sepolte. Ma che comunque reclamano presenza, dolcemente, rispettosamente, senza invadere, ma sapendo di esistere e dando vita all’esigenza di esserci nel momento in cui per chissà quale movimento surreale, se ne presenta l’occasione.

Tutto questo viene espresso, sì, dalla narrazione, una narrazione molto empatica, sentita, esplicita per quanto non convenzionale, ma lo è altrettanto attraverso elementi più astratti; molto evocativo, in tal senso, è il contrasto tra luce naturale e luci artificiali, colorate, che comunicano appunto la consistenza della materia, la vitalità di chi è rimasto, la presenza, sia nel bene che nel male. Le lucine colorate sono un elemento presente sia nella casa dell’uomo e utilizzate in modo affettivo, delicato, condiviso, ma lo sono anche al di fuori della casa, attorcigliate intorno a chi sembra rappresentare il male, o la causa di morte di quelle anime. Sono stati individuati nel lavoro del regista dei richiami e delle suggestioni del cinema di Apichatpong Weerasethakul, che sono effettivamente riconoscibili, anche se si percepisce in quest’opera un’atmosfera meno rarefatta, meno astratta e immateriale, per quanto  suggestiva, in qualche modo più tangibile; Aroonpheng si esprime attraverso un linguaggio comunque molto poetico ed evocativo, non certo immediato, ma con un’anima più esplicita, il che gli conferisce una sua identità, che per quanto più immatura e inesperta lo rende più autonomo.

Come lo stesso regista ha dichiarato a Venezia, la sua opera non era narrativa nei suoi intenti, o meglio non aveva una storia precisa e definita da raccontare: “Manta Ray è guidato dall’immagine e dal suono,  funziona piuttosto come un’opera astratta, un pezzo di musica strumentale”. Ed è così che andrebbe fruita la visione di questa bellissima opera, lasciandosi andare al fluire del suo decorso, traendone le proprie suggestioni e le proprie risonanze e modellando su se stessi e sul proprio sentire qualsiasi interpretazione, esattamente come accade per i due protagonisti del film nello specchiarsi l’un l’altro senza spiegarsi mai. Di certo non un cinema convenzionale e facilmente accessibile rispetto alle usuali abitudini del grande pubblico quello di Aroonpheng, ma ben vengano linguaggi così intensi e carismatici: si spera che, dopo il coraggio della giuria nel conferirgli il premio più prestigioso a Venezia (Orizzonti), possa essere uno dei tanti meravigliosi esempi di luce, essenza e fascino portati da quel contenitore magico che è il cinema orientale, che possa aprire le porte alla sua integrazione e fruizione anche dalle nostre parti.

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