Shame, un film del 2011 diretto da Steve McQueen. Il film è stato presentato in concorso alla 68ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove il protagonista, Michael Fassbender, ha vinto la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile. Michael Fassbender torna a lavorare con McQueen, che lo aveva diretto nel 2008 in Hunger. Del cast fanno parte anche Carey Mulligan e James Badge Dale, che interpretano rispettivamente la sorella e il capo del protagonista. La sceneggiatura è stata scritta dallo stesso McQueen con la collaborazione della drammaturga Abi Morgan.
Sinossi
Brandon è un trentenne newyorkese bello, sicuro di sé, con una bella casa e un ottimo lavoro. Per rendere la sua vita perfetta ci vorrebbe una donna, ma l’uomo non riesce a legarsi a nessuna perché soffre di una perversa ossessione sessuale. Abituato a relazionarsi al sesso femminile solo in termini puramente erotici, Brandon fugge da qualunque donna scateni in lui il più piccolo senso di emozione. E così l’uomo passa le sue giornate diviso tra il sesso virtuale, le prostitute e i video porno. Quando la sorella Sissy, con la scusa di dover fare qualche concerto in città, si trasferisce a casa sua, Brandon sarà costretto a fare i conti con la propria coscienza e a rendersi conto di provare vergogna per se stesso.
La recensione di Taxi Drivers (Martina Calcabrini)
Steve McQueen vinse la Camera D’Or al Festival di Cannes 2008 per Hunger, il suo film d’esordio, consacrando l’allora semisconosciuto Michael Fassbender come uno dei migliori attori contemporanei. Squadra che vince non si cambia, e così McQueen, riconfermando Fassbender come attore protagonista, ha realizzato Shame e lo ha proposto al Festival del Cinema di Venezia 2011.
A quanto pare il regista, sceneggiatore e scultore inglese è letteralmente ossessionato dalle ossessioni. In Hunger, infatti, il protagonista lottava per avere diritto alla libertà individuale, a una vita normale, insomma, malgrado la prigionia. In Shame, invece, il personaggio è intrappolato nel suo stesso corpo, prigioniero di fissazioni che lo rendono schiavo e costantemente inappagato. È proprio attorno al suo bisogno di provare piacere che si costruisce l’intera narrazione della pellicola: il corpo statuario di Michael Fassbender, esposto più volte nei fotogrammi, quasi a ricordare gli antichi tableaux vivant, serve a mascherare il senso di vuoto e desolazione che si porta dentro. Egli preferisce essere “una brutta persona” anzichè che ammettere di provenire da “un brutto posto”. Sua sorella, invece, una strepitosa Carey Muligan, ostenta il proprio dolore in modo opprimente e ridondante: telefonate, messaggi in segreteria, richieste di aiuto.
Ed è proprio quando i mondi opposti e complementari dei fratelli si incontrano che i difetti dell’uno e dell’altra vengono a galla, ed è impossibile, allora, nasconderli. Questo il motivo di una fotografia asciutta, fredda e distaccata che il bravissimo Seam Bobbit mostra fotogramma dopo fotogramma: il senso di ineluttabile disperazione, frustrazione e vergogna di un uomo consapevole della propria “malattia”, traspare in ogni momento.
McQueen usa lunghi e ricorrenti piani sequenza per raccontare gioie e dolori di un rapporto fraterno (e, probabilmente, incestuoso), in cui i litigi sono tanto distruttivi quanto gli abbracci (inesorabilmente respinti), e in cui ogni personaggio, prima o poi, finisce per fare i conti con se stesso e con il proprio passato. O forse no.