Il traffico di droga non risparmia nessun angolo di mondo. Anche l’Islanda, terra remota e isolata, diventa il perfetto scenario per Vargur/Vultures di Börkur Sigþórsson, teso thriller in concorso al 36 Torino Film Festival. Due fratelli, Erik e Atli, si accordano per importare nel proprio paese un chilo e mezzo di cocaina utilizzando “un mulo”, nella persona della giovane polacca Zofia. Il giovane regista islandese descrive molto bene le differenti psicologie dei due fratelli che emergono per fasi successive, in modo piano e con i giusti tempi filmici. Erik è un avvocato, freddo e duro, che ha distratto trenta milioni di corone da un conto patrimoniale di un’eredità contesa legata a un condominio in costruzione. La moglie lo ha abbandonato e lui ha immagini ossessive di ricordi con lei. Atli è stato in prigione, ha un figlio ed è separato dalla moglie, oltre ad avere debiti con persone poco raccomandabili. I due fratelli sono la faccia della stessa medaglia e il più spietato è quello che ha l’immagine pubblica più pulita. Del resto, punto di sintesi è la figura della madre, una vecchia drogata che ha perso qualsiasi elemento di maternità.
L’elemento familiare è interessente in Vargur: anche la ragazza che trasporta la droga nel proprio stomaco ha un figlio. La disgregazione dei rapporti parentali, la solitudine senza speranza di tutti i personaggi, è espressa attraverso una messa in quadro gelida e geometrica, dove il vuoto si fa forma intorno ai corpi attoriali e la fotografia plumbea avvolge tutta la vicenda in un lugubre senso di perenne tensione e di morte. In modo intelligente, Sigþórsson dà inizio a Vargur con Zofia che ingoia gli ovuli di droga per poi arrivare nell’aeroporto di Reykjavík. Con uno stacco vediamo i due fratelli, in varie scene, che concordano l’affare che salverebbe entrambi. Si comprende a posteriori che tutta questa parte è un lungo flashback, a incastro, dove Erik partecipa al viaggio di Zofia fin dall’inizio. Il fuori campo e il sottinteso del passato dei personaggi sono un elemento stilistico che aumenta la tensione drammaturgica e tiene alta l’attenzione dello spettatore. L’islanda diviene così una finis terrae naturalmente geografica, ma allo stesso tempo anche etica dove i due fratelli sono rappresentanti di un’umanità che ha perduto ogni valore morale.
Il regista islandese predilige i primi piani e i totali con stilemi ormai acquisiti del thriller e con qualche debito non solo con il cinema nordico (il primo Refn su tutti), ma anche al polar francese e al thriller italiano degli ultimi anni (è sorprendente ad esempio la somiglianza espressiva e recitativa di Baltasar Breki Samper, interprete di Atli, con il nostro Alessandro Borghi). Sigþórsson conduce fino alla fine lo spettatore in una chiusura tragica dove il male vince come nella realtà e le forze dell’ordine (nella figura di una poliziotta) faticano a fermare le organizzazioni criminali. Vargur si rivela così un’opera prima di interesse e segna il debutto di un regista da seguire nel prossimo futuro.