Mandy di Panos Cosmatos è una delle scoperte presenti nella sezione After Hours viste al 36 Torino Film Festival. Il titolo riprende il nome di Mandy Bloom (Andrea Riseborough) che vive insieme al boscaiolo Red Miller (Nicolas Cage). La donna è una pittrice e disegnatrice di opere fantasy e sword and sorcery e titolare di una piccola stazione di servizio. Diviso in tre parti equivalenti, l’opera è un viaggio psichedelico in cui l’innesto delle immagini digitali rendono la visione fascinosa, ricca di luci e colori, in cui dominano l’arancione e il rosso molto saturi, trasmettendone il calore delle immagini.
Nella prima lenta parte Cosmatos presenta i due protagonisti e la loro vita in una casa isolata immersa nelle foreste del Nord America, il loro stretto rapporto emotivo e le differenti psicologie. Mandy ha avuto un’infanzia difficile con un padre violento e la cicatrice, che le percorre il lato sinistro della faccia, lascia intendere anche soprusi fisici. Una donna sensibile, affascinata dal mistero della natura, con uno sguardo spalancato sulla bellezza del mondo. Red, fin dall’incipit in cui viene ripreso mentre lavora al taglio degli alberi, è invece un uomo semplice, monocorde, affettuoso e protettivo, sempre in ascolto della propria compagna. La seconda parte di Mandy inizia con l’incontro della protagonista con Jeremiah Sand, un santone che guida un gruppo di adoratori di una religiosità perversa e che assassina Mandy dopo che Sand se ne invaghisce e la vuole possedere. Questa parte tracima tra il reale e l’horror con l’intervento di tre motociclisti assassini che sono quasi essere maligni ultraterreni. Se in un primo momento c’è la presentazione della setta e della loro malvagità, l’intero segmento è calato nella notte illuminata dalla visione drogata di Mandy, mentre ascolta gli sproloqui di Sand, e dal rogo del suo cadavere di fronte a Red legato con filo spinato a un albero, impotente testimone della propria amata. La parte finale di Mandy è quella dove Red compie la sua sanguinaria vendetta contro le forze malefiche uccidendo i tre demoni e tutti i componenti della setta in un crescendo di efferatezze fino al delirio dello scontro finale all’interno di una grotta vulcanica tra Red e Sand.
Mandy è un patchwork citazionista, un collage di un immaginario filmico e popolare degli ultimi trent’anni, in cui Nicolas Cage si cala letteralmente con la sua fissità interpretativa che riesce a valorizzarsi all’interno della fluidità dell’immagine. Ad esempio, la casa nel bosco rimanda a tanti horror come luogo iconico assoluto (a iniziare dal cinema di Sam Raimi), oppure i tre motociclisti assomigliano ai supplizianti di Hellraiser di Clive Barker, e uno dei tre ha il membro coperto da una lunga lama con cui stupra le proprie vittime, il che ricorda molto Seven di David Fincher. La setta satanica e la figura di Sand rimandano a Manson e a tutta la filmografia inerente e alla cronaca dell’assassinio di Sharon Tate e dei suoi amici. Lo scontro tra Red e uno dei componenti della setta a colpi di sega elettrica fa il verso ironico (duplicandone l’effetto) a Non aprite quella porta e a tutto il cinema di Tobe Hooper. L’incontro di Red con un suo amico (interpretato da Bill Duke) per recuperare una balestra sembra un epilogo di Predator (e Duke era uno degli attori della pellicola). E ci fermiamo qui perché potremmo andare avanti a lungo.
Il gioco citazionista in Mandy è condotto da Cosmatos con una capacità di dosare l’ironia e gli stilemi del genere, trasformando il film in un viaggio lisergico di due ore in cui lo sguardo dello spettatore è imprigionato in una ragnatela visiva dove l’immagine è somministrata dalla cinepresa come le droghe che è costretta a prendere Mandy e da quelle che assume Red durante lo scontro nella casa dei tre demoni motociclisti. In questo caso il cinema si trasforma in un’assunzione di immagini drogate per lo spettatore e Cosmatos è il suo spacciatore. La sequenza più straniante – che è anche cifra stilistica dell’intero film – l’abbiamo proprio durante l’assurdo monologo di Sand, vestito come un sacerdote egizio di fronte a Mandy drogata: la sua visione distorta e ovattata collima con quella dello spettatore, e la sua risata sardonica di fronte ai deliri di onnipotenza di Sand può essere quella di chi guarda la messa in scena del regista.
Mandy è attraversato, poi, in modo trasversale dalla musica ipnotica di Jóhann Jóhannsson, il compositore islandese trovato morto a Berlino, che potenzia il delirio visivo con un tessuto sonoro avvolgente e scivoloso. Alla fine, Mandy risulta una pellicola senza spazi vuoti, dove la lentezza delle sequenze dilata i tempi della visione e l’irrealtà delle immagini rende reale il viaggio filmico dello spettatore.