Claude Monet è, ancora oggi, il pittore più famoso e acclamato di tutta la Francia. Come ogni artista d’eccezione, però, la sua grandezza venne inizialmente rifiutata e derisa, disprezzata e criticata ogni oltre misura, tanto da portarlo a dubitare egli stesso del suo talento. Amante dell’acqua e dei fiori, il pittore si stabilì lungo vari versanti della Senna, rendendola davvero la spina dorsale della sua intera esistenza. Stanco di trovarsi a ritrarre i paesaggi dalla stessa, statica, inquadratura, Monet adibì una barca a studio personale e cominciò a indagare le varie sfaccettature della luce sull’acqua, i suoi riflessi, i suoi colori. Successivamente lasciò la Normandia per stabilirsi a Giverny dove creò un’architettura vegetale senza precedenti: un giardino rigoglioso e imponente dove poteva studiare l’acqua da vicino e imparare ad addomesticarla.
Proprio qui, in questa radura idilliaca, inizia e finisce Le ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e di luce, il documentario artistico e biografico firmato da Giovanni Troilo e distribuito sul grande schermo da Nexo Digital soltanto il 26-27-28 Novembre. Più che un biopic, la pellicola si configura subito come un’opera indagatrice e filosofica che cerca di ricostruire la carriera ambivalente di un artista diverso da ogni altro. Padre dell’Impressionismo, Monet studiò il rapporto conflittuale tra uomo e natura, portando l’ambiente naturale a divenire molto più che un lirico paesaggio-stato d’animo. Lo rese il protagonista assoluto delle sue tele, la metafora della sua condizione esistenziale, la voce silenziosa di un’anima costantemente in cerca di amore. Fu proprio per questo motivo, infatti, che le ninfee divennero le muse ispiratrici di tutta la sua arte: sintesi perfetta della commistione tra acqua e natura, egli le rappresentò in ben 48 dipinti in un solo anno, il 1909, guadagnandosi così l’appellativo di “pittore della felicità”.
Ma la guerra era alle porte e l’amicizia con il primo ministro francese George Clemenceau – che lo aveva protetto e supportato nelle sue difficoltà artistiche e personali – iniziava a incrinarsi. Tanto il primo cercava la pace e la serenità, quanto il secondo preferiva la battaglia e lo scontro nazionale. Per questo, quando la Prima Guerra Mondiale iniziò a mietere vittime, Monet si rifugiò in un isolamento volontario, abbandonando anche la pittura. Colpito da una malattia agli occhi che lo costringeva a guardare forme e colori in modo completamente nuovo, l’artista comprese poco dopo che l’unico modo per fare la sua parte e combattere in modo alternativo e rivoluzionario era tornare a dipingere. E così i salici piangenti divennero il ritratto di un qualsiasi uomo, marito e padre dilaniato dalla guerra, costretto ad accettare la perdita dei propri cari e a fronteggiare la solitudine imperante e il vuoto dell’esistenza.
Come ultimo lavoro, Monet realizzò La Gran Décoration, un’opera immensa e colossale pensata per attorniare il pubblico de l’Orangerie e per farlo sentire parte integrante dello spettacolo più bello della vita: la natura. Morto nel 1926, pochi mesi prima che la mostra risultasse un fiasco clamoroso, Monet non seppe mai che la sua più grande creazione sarebbe stata oggetto di critiche pesanti ma, anche, fonte di illuminazione per le generazioni future. Scelto come paladino dall’astrattismo, infatti, egli prolungò, involontariamente, il suo lascito nell’arte moderna e ne divenne, a tutti gli effetti, precursore.
Grazie agli interventi dello scrittore Ross King, della fotografa Sanne De Wilde, della giardiniera della Fondation Monet Claire Hélène Marron e dell’attrice Elisa Lasowski (interprete di Games Of Thrones), l’opera prima di Giovanni Troilo costruisce, segretamente, tableaux vivants degni di un artista.