Quinto potere (Network) è un film del 1976 diretto da Sidney Lumet, con Faye Dunaway, William Holden, Peter Finch, Robert Duvall.
Il film vinse numerosi premi, tra cui anche quattro premi Oscar: uno di questi, quello per Peter Finch, fu il primo Premio Oscar postumo della storia assegnato al Miglior attore protagonista. Nel 2000 è stato scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.
Nel 1998 l’American Film Institute l’ha inserito al sessantaseiesimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi, mentre dieci anni dopo, nella lista aggiornata, è salito al sessantaquattresimo posto.
Quinto potere, la trama
Commentatore di una rete tv nazionale, Beale è in crisi di audience e sta per essere licenziato. Amareggiato e depresso, annuncia davanti alle telecamere che si suiciderà, e l’ascolto s’impenna. Diana Christensen e altri cinici manager televisivi fiutano l’affare. Trasformano Beale in un telepredicatore idolatrato dalla folla, poi, quando il fenomeno si sgonfia, lo fanno assassinare in diretta. Pamphlet sulla televisione scritto da Paddy Chayefsky, che la conosceva dal di dentro: aggressivo ed efficace, e soprattutto retto da uno straordinario Peter Finch alla sua ultima interpretazione (vinse l’Oscar come miglior attore, postumo: e lo vinsero anche la Dunaway come protagonista, la Straight come non protagonista, e Chayefsky).
La recensione di Quinto potere
Virulenta satira del potere della televisione, Network è stato un film dal valore profetico, sicuramente in anticipo sui tempi.
Determinante è stato l’apporto dello sceneggiatore Paddy Chayefsky, già autore di Marty, vita di un timido. Ottima la regia di Sidney Lumet, stringata ed efficiente. Ha il coraggio di affidarsi quasi completamente agli attori, ma ha anche delle belle trovate cinematografiche. Una di queste è il monologo di Ned Beatty davanti ad un atterrito Finch in una stanza completamente vuota di un gelido palazzo dirigenziale.
Questo film di Sidney Lumet è abilissimo nel regalare ad ogni personaggio la breve illusione di un potere che la televisione, entità sfuggente e terrificante, inevitabilmente si riprende: la sua continua corsa al rinnovamento è una forma furiosa di ingordigia, che prima trascina, poi travolge, e, infine, annienta chiunque creda di poterla sfruttare a proprio beneficio.
Meritati gli Oscar a Finch (che però avrebbe dovuto concorrere nella categoria di “miglior attore non protagonista” dato il limitato numero di scene in cui appare) e a un’incisiva Faye Dunaway, ma molto bravi anche un invecchiato Holden e Robert Duvall. Quanto a Beatrice Straight, è molto sensibile nell’unica scena in cui appare come moglie tradita di Holden, ma la statuetta come attrice non protagonista sarebbe stato più giusto darla a Jodie Foster in Taxi driver. Nel complesso, il film è invecchiato bene, con meriti stilistici e contenutistici ancora rilevanti.