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La Polinesia è sotto casa

“Personaggi schematici, storia pretestuosa, regia accademica: il film d’esordio del duo Goroni-Smeriglio è un fallimento senza attenuanti”.

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Capita sempre più spesso di rimanere esterrefatti davanti alle scelte che le case di distribuzione nostrane, in particolare le due majors (Rai Cinema attraverso la controllata 01 e la Medusa), fanno e continuano a fare sul mercato nazionale, con criteri e valutazioni che francamente appaiono folli e obiettabili sotto diversi punti di vista. Se da un lato la logica del potenziale profitto al box-office premia prodotti qualitativamente scadenti ma accattivanti per una fascia medio-alta di pubblico, dall’altro c’è un esercito di pellicole che è costretto a sgomitare per ritagliarsi uno spazio nel circuito distributivo principale. Il più delle volte, il destino non sorride a quest’ultima categoria, rilegata nei bassifondi di qualche saletta sperduta di periferia. Così molti film battenti bandiera indipendente nascono e muoiono immeritatamente invisibili. Non è però il caso di La Polinesia è sotto casa, opera prima della coppia formata da Andrea Goroni e Saverio Smeriglio, trasposizione per il grande schermo dell’omonimo romanzo firmato dallo stesso Smeriglio nel 2006. Una pellicola che, oggettivamente e senza ombra di dubbio, meriterebbe di rimanere invisibile ma che, per opera di qualche Santo in Paradiso sceso in missione impossibile negli uffici di Medusa, ha trovato la via della sala (seppur in coda alla stagione balneare) con circa quaranta copie.

Bastano pochissimi minuti per capire gli abissali limiti di un film che, al di là della felice intuizione di raccontare per la prima volta in Italia una storia legata al “mondo” del surf da onda, si trova a fare i conti con una resa drammaturgica e visiva assolutamente mediocre. La Polinesia è sotto casa paga in prima istanza la pessima scrittura, scolastica e catastrofica tanto nell’impianto dialogico quanto in quello più squisitamente narrativo. Fatti, azioni e situazioni, si muovono a fatica in uno script che fa acqua da tutte le parti, mandando di fatto l’intero lungometraggio letteralmente a picco sotto il peso dell’inconsistenza, del cliché, della banalità e della voglia di strafare dei suoi autori. Il film racconta la storia di Stefano, un giovane che potrebbe dichiararsi soddisfatto: ha un buon lavoro, una fidanzata, una casa … Ma dentro di lui cova un insopprimibile bisogno di altrove, come se volesse liberarsi dalle relazioni che sente false e dalle sue scelte, che sente inadeguate ai suoi reali bisogni. Sarà tornando al suo vecchio amore, il surf, che potrà compiere un percorso dentro di sé, alla ricerca di ciò che davvero conta per lui.

La Polinesia è sotto casa parla di una sorta di redenzione e dell’esigenza quasi epidermica di un uomo di riappropriarsi della sua vita, magari attaccandosi ai ricordi passati, a vecchi amori (il solito triangolo sentimentale con lui, lei e l’altra) e agli amici di un tempo. Il surf dovrebbe essere, secondo gli intenti, la metafora della ricerca di una libertà fisica e mentale, metafora che si tramuta ben presto in filosofia spicciola al servizio di un cocktail annacquato di onde solcate da tavole, tramonti e albe, tatuaggi su corpi di surfisti nemmeno tanto scolpiti. Il risultato è assolutamente da dimenticare e i buoni propositi, di conseguenza, gettati al vento, poiché supportati da una trasposizione in immagini e suoni da censura per qualità fotografica e componente scenografica.

La messa in scena è infatti la seconda nota dolente di un film che nella sua concezione genetica punta miserabilmente a un modello troppo alto come Un mercoledì da leoni (1978) di John Milius, ma finisce con il conquistarsi di diritto un posto nella filmografia dei peggiori titoli appartenenti al cosiddetto surf-movie nel quale figurano: Surf II (1984) di Randall Badat, I ragazzi del surf (1988) di Fritz Kiersch, California Dreaming (1979) di John Hancock, per chiudere in bellezza con Bikini Beach (1964) di William Asher. Genere balnear-sportivo che, a differenza degli esempi sopraccitati, può contare, per quanto riguarda il cinema di finzione, anche su perle come il capolavoro firmato da Milius, I cavalloni (1954) di Paul Wendkos (che diede un forte contributo alla diffusione del surf negli USA) e le acrobatiche riprese mozzafiato delle mareggiate solcate dagli ardimentosi surfer di Point Break (1991) della Bigelow e La grande onda (1998) di Zalman King e, soprattutto, su un documentario del calibro di Riding Giants (2004) di Stacy Peralta per il “cinema del reale”. L’elemento più evidente in negativo è che, in un film sul surf, le sequenze in acqua si contano sulle dita delle mani, per di più non particolarmente riuscite sul versante dello spettacolo, e quelle a terra non sono da meno. Le ambientazioni marchigiane cozzano con le interazioni operate negli Stati Uniti in quel di San Diego, e i miracoli del montaggio qui non possono verificarsi.

Ad affossare il tutto ci pensano i due registi, ai quali non si può purtroppo concedere un’attenuante legata alle difficoltà di un’opera prima, perché le insicurezze e la pochezza stilistica espresse non prefigurano miglioramenti (ma siamo pronti a ricrederci). Una successione di campi-controcampi è veramente poca cosa, almeno quanto alcune soluzioni visive come soggettive e camera a mano che, di tanto in tanto, rompono una linearità registica che non figura uno stile chiaro ma una pezza per chiudere gli strappi. A chiudere il cerchio ci pensa poi un cast nel quale salvare qualcuno è un autentico azzardo e per questo nemmeno proviamo a farlo.

Personaggi schematici, storia pretestuosa, regia accademica, montaggio discontinuo e poco rigoroso, rappresentano dunque il migliore dei sunti possibili per descrivere il film d’esordio del duo Goroni-Smeriglio.

Francesco del Grosso

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