Se fosse di una qualche utilità stabilire il grado di appartenenza di un film alle linee guida di una manifestazione cinematografica, non c’è dubbio che il nuovo lungometraggio di Philippe Faucon figurerebbe in cima alla lista dei film selezionati dal MedFilm Festival. Amin, infatti, mette al centro del proprio interesse l’immigrazione intesa sia come mutazione geografica sia quale luogo dell’anima. Esemplare, in tal senso, si profila l’esperienza del protagonista, operaio senegalese trapiantato in Francia per guadagnare i soldi da mandare a casa e, allo stesso tempo, esule in un paese vissuto come opzione straniante e ineludibile. Una condizione che Faucon ci mostra senza mezzi termini attraverso l’esempio di un collega di Amin, diviso tra la famiglia di origine e l’altra, acquisita nel corso della permanenza in terra straniera. Una possibilità che a un certo punto si prospetta anche ad Amin con la frequentazione di Gabrielle (Emanuelle Devos), conosciuta per caso sul posto di lavoro.
Alle prese con una storia non certo originale, Faucon cerca di evitare la retorica con una messinscena paradigmatica, capace di mettere in relazione gli elementi della tragedia senza appesantirli di ulteriori spiegazioni. Così, per esempio, appare la dialettica tra i sacrifici compiuti da Amin per tenere fede ai propri impegni e quelli altrettanto duri sostenuti dalla moglie, occupata ad allevare i figli e a seguire i lavori della casa costruita con i guadagni del marito. In maniera analoga lo è il rapporto tra Gabrielle e l’ex marito, i cui battibecchi fanno da specchio alle incomprensioni tra Amin e la consorte, frustrata dal fatto di dover vivere lontano dall’uomo che ha sposato.
Togliendo alle immagini il loro potere evocativo, qui utilizzate per supportare la messinscena delle vite dei personaggi, Amin (Ouidad Elma) realizza un compendio di sventure e afflizioni consumate nell’ombra e vissute con il peso di un rimorso causato da colpe mai commesse. Iniquità a cui è difficile restare indifferenti e che però non riescono a colmare la sensazione di un’eccessiva semplificazione dei fatti, soprattutto quando si tratta di rendere conto dei cambiamenti emotivi e psicologici dei personaggi. Troppo veloce e schematica risulta la trattazione della relazione tra Amin e Gabrielle, così come lo sono i vari inserti in cui il film si apre sul mondo circostante per raccontare le vicissitudini dei compagni di Amin. Tutto questo, senza nulla togliere alla dignità del film e a quella dell’umanità che vi è rappresentata.