“Madonna prima di Madonna, Prince prima di Prince” (Miles Davis)
Se c’è una cosa che il documentario riesce a fare bene è quello di riportare alla luce realtà dimenticate, cioè troppo presto avvolte dal cono d’ombra dell’oblio. Quando poi si ha a che fare con un caso come quello di Betty Davis, allora questa caratteristica assume una valenza di necessità legata sia alla conoscenza dei fatti sia alla corretta collocazione del contesto in cui essi si sono svolti. Betty – They Say I’m Different, di Philip Cox, si prefigge di farlo rispetto alla vicenda della protagonista, scomparsa anzitempo dalle scene musicali all’indomani di una carriera che all’inizio degli anni Settanta l’aveva vista imporsi tra le stelle più fulgenti e innovatrici di quel periodo. Senza un motivo che ne potesse giustificarne le ragioni, Betty non solo abbandonò il mondo della musica ma fece di tutto per far perdere le proprie tracce, riuscendo a trasformare l’esilio in una vera e propria morte sociale. Questo fino alla rottura del silenzio, avvenuta dopo trentacinque anni di latitanza, compensati da qualche frase di commento alla propria vicenda e dall’autorizzazione di portare finalmente sullo schermo la propria storia.
Tenendo conto del punto di vista dell’interessata, scevro dall’entrare nel merito delle ragioni della sua decisione, Cox ripercorre le tappe di una carriera a dir poco folgorante che, oltre a imporla come pioniera del funky, ne fece un’artista di riferimento nell’ambito della lotta per i diritti civili e tra le fila dei movimenti femminili del cui pensiero si fa interprete, proponendo un’immagine di donna (afro-americana) indipendente e fuori dagli schemi che rilancia la bellezza femminile in senso provocatorio e sexy. Prima di lasciare il palco e pure Miles Davis, di cui fu sposa e in parte anche musa, Betty riuscì a fare ciò che si era prefissa, cucendosi addosso un sound autarchico e vitale incamerato da Betty – They Say I’m Different nel caleidoscopio visivo entro il quale la vicende personali della protagonista si mescolano a quelle di una comunità che lottava per affermare il diritto alla propria esistenza. Cox dirige con occhio artistico ma senza venir meno all’esigenze narrative. All’uscita dalla sala viene voglia di andarsi a comprare le canzoni appena ascoltate, segno che il film è riuscito nel suo intento.