«”La strategia degli affetti”, secondo lungometraggio di Dodo Fiori, indaga dinamiche affettive ed esistenziali, concentrandosi su un nucleo borghese e sul malessere degli esseri che lo abitano».
Il cinema italiano è pigro. Sembra impossibilitato ad uscire da uno stallo (narrativo e tecnico) che pare una vera e propria maledizione. Concediamogli la poca originalità di tematiche, ma almeno ne pretendiamo uno sviluppo, un approfondimento (anche di semplice tecnica cinematografica) capace di scavare e renderci un elemento di attenzione nelle storie che si vogliono raccontare. È il caso de La strategia degli affetti, secondo lungometraggio di Dodo Fiori, che, dopo Il silenzio intorno (2006), reindaga dinamiche affettive ed esistenziali intrafamiliari, concentrandosi su un nucleo borghese e sul malessere degli esseri che lo abitano, inconsciamente o consapevolmente ingabbiati dentro meccanismi che gli fanno assumere connotati sempre più cinici e disumanizzanti.
Paolo (Paolo Sassanelli), Carla (Marta Iacopini), Matteo (Davide Nebbia), costituiscono una famiglia che va avanti senza porsi troppe domande, temprata da una forza economico-sociale nella quale sguazzano e che misura il valore di una persona unicamente attraverso la contrapposizione fallito-vincente. L’anello debole della catena è Matteo, figlio sia nel corpo che nello spessore emotivo decisamente lontano da meccanismi prevaricanti. Matteo è un buono risentito, con qualche chilo di troppo, completamente diverso da suo padre, a cui è legato da un rapporto di finto distacco: ne odia la ‘forza’, anche se ne vorrebbe l’accondiscendenza e la complicità. Carla è, dei tre, la donna e madre che più di tutti ha perso ogni tratto di umanità, stretta in uno stile di vita improntato al formalismo assoluto, divenuto cecità del reale, specie nel modo di gestire Matteo, trattato come un bambolotto. Dentro questo sotterraneo magma incandescente, si insinua il passato e l’altro riflesso dello specchio: Mario, il ‘fallito’, un uomo con una serie di insuccessi alle spalle, legato alla famiglia di Paolo da un favore reso estremamente compromettente. I due si rivedono casualmente e, da tale incontro, Nina (Nina Torresi), la figlia adolescente di Mario, diverrà il collante di due mondi (borghesia e proletariato, per esemplificare al massimo) che porterà in superficie i malesseri reciproci, specie quello di Matteo, attraverso una resa dei conti che accentuerà il confine tra due tipologie di umanità destinate a non mescolarsi mai, se non a caro prezzo reciproco.
La sceneggiatura di partenza conteneva spunti interessanti (confido che siano stati questi a fornire l’ok per il finanziamento del Ministero dei Beni Culturali e la distribuzione da parte di Cinecittà Luce), che emergono fiocamente e nonostante il risicato spessore di ciascun personaggio. Tutto appare in uno stato embrionale, ancora al livello di trattamento. E, ribadisco, si rischia poco, preferendo appoggiarsi a figure e situazioni stereotipate e giustapposte (per quale ragione, mi chiedo, l’amico del debole Matteo deve essere necessariamente omosessuale e, come da copione, provarci con Matteo? E perché rendere questa attrazione con un gesto scontato che pare l’unico modo di chiudere il senso di un personaggio del quale non si comprende l’inserimento?), che allontanano sempre più dal ‘vero’ che si vuole raccontare. Regista e sceneggiatori dovevano letteralmente aggrapparsi e sviscerare al massimo delle possibilità cinematografiche l’unico elemento davvero originale di questa storia: la poca nitidezza di ciascun personaggio, che non è mai soltanto ciò che appare. La figura più riuscita in tal senso è Nina, insieme ad un finale poco accondiscendente, ma affrontato (purtroppo) con una reverenza stilistica e di scrittura che non si stacca da un ‘politically correct’ che pare il marchio di fabbrica del nostro cinema da un po’ di tempo a questa parte. Aggiungiamo un impiego della componente musicale ridondante e assuefatto ad un ‘già sentito’, inadatto a creare sostanza alla narrazione. Idem per l’uso della mdp, che mediamente assume uno stile da fiction, incapace di emergere quale forza a sé stante, caratterizzando stati emotivi, narrativi, contribuendo ad aggiungere un punto di vista visivo a personaggi, ambienti e racconto.