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Conversation

ll cinema come rischio e ambizione: intervista a Francesco Zippel, regista di Friedkin Uncut – Un diavolo di regista

Tra i registi della nuova Hollywood William Friedkin è, insieme ad Hal Ashby, il vertice di un'anomalia destinata a fare discutere. Friedkin Uncut - Un diavolo di regista è una ricognizione a tutto campo dell'uomo e dell'artista fatta da chi Friedkin lo conosceva bene. Da Il braccio violento della legge a Il salario della Paura passando per L'esorcista,  Cruising e Vivere a morire a Los Angeles, i capolavori del compianto regista americano rivivono attraverso la conversazione con Francesco Zippel, autore del documentario

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I capolavori del compianto grande  regista americano rivivono attraverso la conversazione con Francesco Zippel, autore del documentario Friedkin Uncut – Un diavolo di regista del 2018.

Un film con Quentin Tarantino, Matthew McConaughey, Wes Anderson, Juno Temple, Gina Gershon

Il film ha ottenuto 1 candidatura a David di Donatello.

Qui la conversazione fatta nel 2018 .

Friedkin Uncut – Un diavolo di regista non ricostruisce l’opera del grande regista americano con linearità filologica, ma si concentra su alcuni elementi salienti dell’uomo e dell’artista. Qual è stata l’idea che ha ispirato la selezione dei contenuti e il ragionamento intorno alla figura del cineasta?

Diciamo che l’ho fatto insieme a lui: intendo dire che mentre lo intervistavo ho tentato di capire quali potevano essere i film e i temi capaci di raccontare nella maniera più piena e completa innanzitutto la persona e, di riflesso, l’artista. Friedkin è un uomo immerso nel presente e per il quale parlare del passato non ha senso se non quando si tratta di farlo, com’è successo in Friedkin Uncut, rispetto a film per i quali è valsa la pena portarne avanti il discorso artistico. L’esempio più eclatante è Sorcerer (Il salario della paura), che più di tutti rappresenta la capacità di Fredkin di mettersi ogni volta in discussione misurandosi con qualcosa di più grande di lui, senza perdere l’integrità intellettuale e di artista. Sorcerer viene dopo L’esorcista, cioè in un momento in cui Hollywood lo corteggiava con proposte anche molto commerciali a cui, però, lui ha risposto con una lunga riflessione che lo ha portato a scegliere un film già intercettato da spettatore con la visione de Il salario della paura di Clouzot, uno dei suoi autori preferiti. Insieme a Wally Green, sceneggiatore di Il mucchio selvaggio, sono partiti da questo spunto con l’intenzione di realizzare il film che avrebbero voluto vedere.

Parlavi di un’artista colto e questo lo si vede nel film quando, spostandosi tra le stanze della sua casa, ci vengono mostrate opere d’arte provenienti da varie parti del mondo. In realtà Friedkin è uno che si costruisce tutto da sé, nascendo da una famiglia modesta e, come Hal Ashby, un altro icona della New Hollywood, non frequenta una scuola di cinema. Può essere questa una delle ragioni che spiegano la meravigliosa anomalia di Friedkin rispetto al suo tempo?

Si. La cosa interessante da dire, la meravigliosa anomalia, è che lui è la persona più curiosa che abbia mai conosciuto, quindi, indipendentemente dal suo background familiare e culturale, si è nutrito di qualsiasi cosa gli sembrasse interessante in termini di vita vissuta, di libri, musica e cinema. Nel film ne parla senza alcun snobismo o distinguo critico, ma come un percorso d’artista che lo ha portato a mettersi in discussione, se vuoi in un modo molto pratico: all’inizio, lavorando nell’ufficio di una stazione televisiva in cui partendo dal basso è entrato a contatto con grandi personalità. In televisione ha diretto l’ultima puntata della Alfred Hitchcock Hour. Poi ha iniziato la sua carriera nel cinema in maniera molto naturale, avendolo appreso attraverso un’esperienza sul campo molto serrata. Ci sono grandi registi che lo diventano perché hanno frequentano le università più prestigiose e altri che invece arrivano agli stessi risultati con un percorso molto diverso. Com’è successo nel caso di Friedkin.

Continuando a parlare di anomalie artistiche, Friedkin per certi versi lo è ancora più di Ashby. E qui mi riallaccio a un altro discorso che viene fuori molto bene, e cioè di come viene percepito negli anni settanta il suo cinema, considerato conservatore e addirittura di destra, al contrario di Ashby, destinato, come molti altri esponenti della New Hollywood, a diventare paladino del pensiero progressista. Negli anni ’80 e ’90, paradossalmente, si assiste a una rivalutazione con Vivere e morire a Los Angeles prima e Jade poi, letti come una critica al sistema capitalista.

Ma, sai, mi viene da fare un parallelismo con un altro autore per cui in Italia è stato fatto lo stesso discorso di Friedkin: parlo di Pietro Germi, il quale anche lui aveva un grandissimo interesse rispetto alle storie dei film che decideva di volta in volta di fare e, per quanto riguarda, Friedkin con un’aderenza alla realtà quasi brutale. Nessuno dei due però ha poi deciso di collocarsi in un determinato ambito politico.

Nel tuo film glielo fai dire…

In un momento come gli anni Settanta, in cui se non ti schieravi eri automaticamente di destra, posso dirti che, conoscendo Friedkin da lungo tempo, lui è una persona molto netta nei suoi giudizi ma assolutamente non di destra come visione politica. Certo, ha un approccio muscolare, però avendo realizzato un certo tipo di film, con un certo tipo di energia e una visione molto specifica e mai edulcorata della realtà, lo hanno fatto diventare un regista di destra senza che lui lo sia.

Pensiamo al suo film d’esordio, The People vs. Paul Crumb del 1962, in cui il documentario su un detenuto di colore in attesa di essere giustiziato diventa strumento di convinzione capace di riaprire il caso scongiurando l’esecuzione del protagonista.

Questo, come si usa dire, è molto progressista (ride). Lui ha sempre fatto ciò che gli interessava, progetti in grado di incuriosirlo e di essere da stimolo per la sua creatività. Anche L’esorcista non l’ha visto come una potenziale macchina da soldi, piuttosto come una storia che uno come lui, razionale, laico e con un interesse culturale per i testi sacri, non riusciva a spiegarsi. Da qui la curiosità per lo straordinario romanzo di Peter Blatty e la voglia di  vedere in che maniera sarebbe riuscito a tradurlo nella realtà. Coppola del film dice la cosa giusta e cioè che Friedkin non vuole rendere implicito qualcosa, ma mostrarlo nella maniera più rigorosa possibile. È questo il tipo di approccio utilizzato, la sua metodologia.

Nel tuo film cogli uno dei punti fondamentali del personaggio, ovvero il fatto che pur non venendo mai meno a quella che tu giustamente hai definito aderenza quasi brutale nei confronti della realtà, Friedkin è un grande ammiratore di registi come Fellini e Antonioni, che invece fanno della trasfigurazione del reale il punto centrale della loro arte.

Si, assolutamente. Ti faccio anche un altro esempio. Qualche giorno fa siamo andati a presentare il film al Festival di Chicago per l’anteprima nord americana, cosa tra l’altro che a lui ha fatto molto piacere, perché li è iniziata la sua carriera. Ebbene: quando gli hanno chiesto di presentare il suo film preferito, con grande sorpresa di tutti ha scelto The Band Wagon di Vincent Minnelli, uno dei musical più belli di tutti i tempi per il livello di creatività e di inventiva messe in mostra dal regista. Questo la dice lunga su Friedkin e la mancanza di pregiudizi che gli permette di mettere sullo stesso piano la capacità di andare oltre la realtà di un regista come Minnelli con quella mostrata da Fellini e Antonioni. Anche oggi lui continua a essere affascinato da questo tipo di artisti.

 

 

 

Nella filmografia del regista, Cruising è forse l’opera più sottovalutata rispetto al suo valore. Oltre a essere un documento inedito sul proprio tempo, costituisce anche una pietra tombale su un certo cinema americano, ma pure un monito rispetto all’ottimismo degli anni ’80, poi funestato dalla comparsa dell’Aids. Senza dimenticare la grande interpretazione di Al Pacino che, per quanto mi riguarda, è forse la migliore della sua carriera.

Concordo. Anche li si ritrova l’anima più pura di Friedkin, perché se parli con lui ti dice che non ha voluto nient’altro che adattare i codici di genere del noir e del giallo all’interno di un contesto realistico estremamente disturbante che andava affermandosi in quel periodo storico. Allora molti, anche all’interno della comunità omosessuale, non ne sapevano nulla o non ne volevano sapere perché era una cosa percepita come imbarazzante. Dal materiale di archivio inserito in Fridkin Uncut, con le proteste davanti ai cinema dove veniva proiettato, si capisce come si sia trattato di contestazioni aprioristiche. Lungi dall’esprimere qualsiasi tipo di giudizio, Friedkin dice di aver utilizzato il background dei club sadomaso di New York, di cui pochi sapevano, solo per fini artistici e di regia e allo scopo di innestarvi una storia noir.

Anche qui a smentire la presunta omofobia di Friedkin ci viene in aiuto la sua filmografia, e in particolare il suo quarto film, Boys in the Band, trasposizione di uno dei testi fondamentali del teatro LGBT.

Si, infatti. Tra l’altro, Boys in the Band è un altro film a cui lui è legatissimo. Recentemente il testo è stato riportato a Broadway, naturalmente in chiave teatrale. È andato a vederlo, apprezzandone molto la riduzione che ne è stata fatta.

Parlando del rapporto con i suoi interpreti, detto che l’unica grande star che ingaggia è Pacino, con cui peraltro ha un rapporto burrascoso, Friedkin lancia attori sconosciuti come Hackman e Schneider e riesce a ottenere il meglio anche da quelli che è costretto a prendere per cause di forza maggiore. In Friedkin Uncut ci sono le testimonianze di alcuni di questi, tra cui McConaughey, Defoe e, soprattutto, Gina Gershon, che in Killer Joe ebbe il suo da fare per entrare nel personaggio.

Ho avuto una grandissima risposta da tutti gli intervistati, che mi hanno sorpreso per il livello di entusiasmo con il quale hanno accettato di partecipare. Il livello di gratitudine nei suoi confronti ha toccato il culmine con Matthew McConaughey che, impegnato a girare in varie parti del mondo, ha deciso di aspettarlo perché voleva testimoniare la sua stima verso chi gli aveva cambiato la vita artistica. Seppur diversissimi tra loro, Ellen Burstyn – che è il metodo di Strasberg in persona – lo stesso McConaughey, Michael Shannon e Willem Defoe, sono tutti attori che hanno beneficiato dell’approccio diretto che lui ha con loro, del suo modo di stimolarli e di portarli al limite, come nel caso di Gina Gershon in Killer Joe. In quest’ultimo frangente si è trattato di condizioni emotivamente estreme, ma dal punto di vista di Friedkin non c’era nessun altro modo per raggiungere quelle performance, se non andare a indagare le zone più oscure dell’animo umano. Di fatto gli stessi attori gli sono rimasti molto amici: la Burstyn è salita con lui sul palco in occasione del 45esimo anniversario de L’Esorcista, così come ogni volta che si reca a New York William va a cena con la moglie insieme alla Gershon, di cui è diventato amico. In generale, lui è molto intimo con la maggior parte degli attori con cui ha lavorato e questo dice tanto.

Friedkin insiste molto sull’importanza di assumersi il rischio necessario per fare il film che si vuole. Abbiamo già detto de Il salario della paura ma, per esempio, le peripezie per realizzare Il braccio violento della legge non basterebbe un libro per raccontarle. A proposito di rischi, vale la pena soffermarsi su cosa è stato negli anni ’80 un film come Vivere e morire a Los Angeles: attori sconosciuti, il protagonista tolto di mezzo a metà film, totale pessimismo e assenza di figure positive. Per i suoi tempi – e non solo – si è trattato di un vero e proprio oggetto non identificato.

Esatto! Questo si ricollega a quello che ti ho detto all’inizio: nel fare un film che potrebbe essere per certi versi la versione losangelina di French Connection, lui si chiede qual è la fotografia della città in quel preciso momento storico. Constatando che la città ha questo tipo di conflittualità e un certo tipo di dinamiche criminali, lui la fotografa senza voler piegare la realtà a un’idea narrativa che lo obbliga a una rappresentazione di buoni e cattivi. Poi, certo, lui usa tutti gli espedienti narrativi e i codici di genere che gli servono per fare il film, però la realtà è quella, e la racconta cosi com’è. Anche se questo comporta di avere tutti personaggi negativi e di fare uno strappo alle regole facendo morire il protagonista a metà del film.

Vedere una cosa del genere al cinema fu un autentico shock, però qui parliamo di un regista visionario capace di fare film che sono visioni della realtà. Un’altra cosa che potrà sorprendere gli appassionati è quando, rispondendo a precisa domanda, afferma che la migliore in circolazione è la Bigelow per il suo modo di buttarsi e di rischiare pur di portare a termine i film. Non meno spiazzante è la scelta di Chazelle.

Beh, se tu vedi Detroit ti accorgi che è un film perfetto per uno come Friedkin, perché racconta senza finzioni e alterazioni della realtà un preciso momento storico, che poi è la cosa per cui lui impazzisce. In quel film ci sono dei momenti di puro documentario un po’ come in The French Connection, mentre per lui Chazelle è il talento e l’energia creativa al potere. Dapprima da un suo cortometraggio tira fuori un film in cui fa convergere una straordinaria energia, poi decide di reinventare il musical con La La Land, mentre adesso fa un lungometraggio spettacolare ma anche molto intimo, come The First Man, dimostrando quel tipo di audacia di cui ti parlavo a proposito di The Sourcerer. Vien da sé che Friedkin pensi a Chazelle come al naturale erede di un cinema che a lui piace. I loro film non hanno rapporti diretti a livelli di cinematografia, però Chazelle è quello che vorrebbe vedere in un momento in cui si fatica a trovare giovani autori capaci di portare avanti un discorso personale in una fase dove il mercato è occupato quasi per intero da prodotti come quelli della Marvel.

Tra l’altro, parlando di Detroit, se ricordi, nei primi 15 minuti Bigelow sottrae i protagonisti allo spettatore facendogli credere che possano esserlo gli uomini e le donne di volta in volta riprese dalla macchina da presa. Un po’ come succedeva ne Il braccio violento della legge in cui più di una volta Popeye e Russo vengono inghiottiti dalla città diventando un tutt’uno con il resto della folla. A questo punto dell’intervista non posso non chiederti se e quando Friedkin tornerà a fare un film.

Esatto. Stiamo parlando di una capacità che hanno solo i grandi registi. Lui si prende i suoi tempi ma sta lavorando in parallelo su due progetti. Il primo è una serie, reinventata dal punto di vista ambientale, ma che mantiene un impostazione identica a Killer Joe. Per quanto riguarda il cinema, invece, dopo averci riflettuto più di vent’anni sta lavorando sulla storia di Jack lo squartatore che – al di là del personaggio iconico – lo attira per il discorso legato alla Londra dell’epoca, studiata a fondo e talmente affascinante dal punto di vista sociale e dei rapporti umani da indurlo a farne un film.

Dicevamo di come Friedkin Uncut riesca a raccontare l’uomo prima che il regista. A dispetto dei suoi film, quello che vediamo è una persona solare, espansiva, sempre pronta a lasciarsi andare. In un momento lo osserviamo in pubblico mentre accenna a qualche passo di danza oppure canta la Marsigliese e Singing in the Rain.

Lui è una delle persone più ironiche e divertenti che ho conosciuto nella mia vita. Diciamo che ribalta lo stereotipo dei comici che fanno ridere sullo schermo e sono tristi nella vita. È un regista che fa film cupi, mentre nella realtà è esattamente il contrario. Penso che sia anche la sua ironia, intesa come capacità di osservare la realtà sapendone prendere le distanze, che poi sul set gli consente di essere efficace e acuto.

Il film esce il 5 novembre…

Quella del 5 è un’uscita evento, dopodiché il film coprirà un poco alla volta tutte le città italiane. All’inizio del nuovo anno ci sarà la possibilità di vederlo su Sky Arte. Tieni conto che il film è stato venduto all’estero in Francia, in Spagna, in Sudamerica e Inghilterra, senza contare il suo cammino nei festival di tutto il mondo.

Prossimi Progetti?

Uno in fase già avanzata è una storia poco nota, ma molto interessante, legata al primo regista afro-americano Oscar Micheaux. L’altro invece sarà su Paul Newman.

Si è spento oggi a 87 anni William Friedkin, regista de L’esorcista

  • Anno: 2018
  • Durata: 107'
  • Distribuzione: Wanted
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: IItalia
  • Regia: Francesco Zippel
  • Data di uscita: 05-November-2018

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