Che cosa vi ha spinti a raccontare, attraverso un genere come il documentario, il tema dell’immigrazione e della difficoltà d’integrazione degli stranieri nel nostro paese? Ritenete che il cinema della realtà, non romanzato e narrativo, possa affrontare con maggior incisività questioni quantomai attuali che riguardano da vicino ognuno di noi e sono oggetto di profonde divisioni e divergenze di vedute nella società italiana?
Partendo dal presupposto che il genere documentario è a tutti gli effetti narrativo quanto quello di finzione, perché, pur mancando di messa in scena, ha una vera e propria struttura narrativa, non sappiamo dire in realtà se esso sia in assoluto più incisivo di altre forme di cinema nel raccontare il mondo, ma di certo obbliga a un confronto continuo, costante, con la realtà.
Ci interessava raccontare le migrazioni in Italia e il sistema di accoglienza, evitando una rappresentazione schiacciata sul dualismo emergenza/minaccia. Ci è sembrato che una squadra di calcio quale la Liberi Nantes, composta da rifugiati e richiedenti asilo, che non può competere per nessun titolo sportivo perché gran parte dei suoi giocatori non ha documenti, potesse essere la metafora della condizione dei migranti e delle politiche che regolano le migrazioni contemporanee in Europa. In più, era un buon punto di partenza per raccontare storie e vite fuori dal campo nella loro complessità e concretezza, gettando inoltre uno sguardo sull’Italia come paese e società di arrivo e sulle contraddizioni del sistema di accoglienza dei migranti e descrivendo, infine, il perenne stato di attesa a cui sono vincolati i migranti e forse più in generale il senso di precarietà e disorientamento di fronte alle profonde trasformazioni globali in corso.
La scelta di sottotitolare i dialoghi fra i protagonisti stranieri e le loro riflessioni, che permette allo spettatore di ascoltare dalla loro viva voce le loro storie e aspettative, corrobora quell’effetto di realtà, di aderenza al dato materiale, caratteristico del genere documentario. È stato difficile per voi registi interagire con persone che non conoscono la nostra lingua o ne possiedono una conoscenza estremamente limitata?
La scelta di lasciare i protagonisti liberi di esprimersi nella loro lingua è stata fin dal principio avvertita come necessaria e imprescindibile per la costruzione della relazione tra noi registi e loro. Quello che apparentemente poteva sembrare un ostacolo alla fine si è rivelato essere un vantaggio acquisito, dal momento che questo ha permesso loro di vivere con maggiore naturalezza l’esperienza delle riprese e dare meno peso alla presenza della macchina da presa. Interagire con loro non è stato difficile, perché i protagonisti sono stati lasciati totalmente liberi di vivere semplicemente la propria quotidianità. La macchina da presa – con il loro accordo dichiarato – li seguiva nel modo più silenzioso e al tempo stesso intimo possibile. Non avendo bisogno di essere diretti, dunque, la mancanza di una lingua condivisa non è mai stata un ostacolo. Una parte importantissima del nostro lavoro, infatti, è consistita nel lungo e attento sottotitolaggio successivo. Va precisato, comunque, che i ragazzi parlano discretamente italiano, tanto da rendere possibile la costruzione di una stretta relazione con noi registi.
Come si sono trovati i giovani protagonisti, che ovviamente non sono attori professionisti, a parlare davanti alla macchina da presa (o a una videocamera) e a essere ripresi durante la loro quotidianità, fatta di allenamenti e di attese per ricevere i documenti che ne consentano la permanenza in Italia, d’incontri fra connazionali e di spostamenti per una città straniera?
Ciascuno dei protagonisti ha reagito diversamente alla presenza della macchina, a seconda del proprio carattere. Noi, in ogni caso, abbiamo cercato di mettere i ragazzi in una situazione che li rendesse il più possibile a loro agio, cercando di rendere invisibile, per quanto possibile, la nostra presenza. Dal punto di vista tecnico abbiamo cercato di limitare l’uso di macchine da presa e microfoni di grandi dimensioni, prediligendo piuttosto la macchina a mano e i radiomicrofoni; dal punto di vista più puramente registico, invece, abbiamo optato per un vero e proprio pedinamento del personaggio, che permettesse a quest’ultimo quasi di dimenticarsi della nostra presenza. Il tutto però è stato possibile solo dopo un lungo lavoro di relazione tra noi e loro: soltanto dopo aver raggiunto un certo grado di fiducia e conoscenza reciproca, infatti, abbiamo ricorso alla macchina da presa.
Per quale motivo avete deciso di aggiungere alle immagini un commento musicale originale, che inevitabilmente drammatizza le sequenze e, come avviene nel cinema narrativo, esprime empatia con le sequenze stesse? Non ritenete una simile scelta in contraddizione con la neutralità assoluta che, se è forse impossibile da raggiungere, un genere fondato sull’oggettività e l’aderenza al reale come il documentario dovrebbe comunque perseguire?
Se il documentario è un confronto continuo con la realtà, e a partire da quella prende forma, rimane comunque una rappresentazione creativa della stessa. E in questi casi crediamo che di neutrale e oggettivo vi sia poco. Ci sembrava giusto invece che fosse ben chiaro il nostro sguardo sulla realtà. Per usare una metafora sportiva, rendere chiari la nostra posizione in campo e il punto dal quale stavamo guardando ciò che si racconta nel film. La nostra presenza come registi è dichiarata e per questo, per quanto il lavoro delle riprese sia consistito in un’osservazione quanto più imparziale possibile, è inevitabile che il nostro pensiero si riversi su tutto ciò di cui si compone il film: dalla scelta delle inquadrature, alle scelte di montaggio, così come alla presenza della musica. In questo senso, dunque, l’uso di quest’ultima è stata una scelta ben consapevole, anzi, abbiamo aggiunto la musica con il preciso proposito di drammatizzare alcune scene, o più propriamente di creare una drammaturgia delle immagini. La neutralità assoluta è qualcosa di impossibile da raggiungere, fintantoché dietro la macchina da presa ci sarà qualcuno dotato di un proprio punto di vista e di proprie idee.
I protagonisti vedono nel successo calcistico la massima realizzazione possibile, tanto che uno di loro si augura di diventare un giorno «famoso come Totti, il re di Roma, rispettato da tutti» e, insieme al miraggio della ricchezza, esprime come suo massimo auspicio quello che il suo nome venga ricordato da tutti con ammirazione, proprio come quello di un calciatore famoso o di un qualunque personaggio che, in un modo o nell’altro, sia giunto al successo. Non credete che un simile modello, quello rappresentato dal conseguimento della ricchezza e della fama e dalla loro ostentazione, sia il portato di una società consumistica e che si eserciti con maggior persuasione proprio su chi proviene da una condizione d’indigenza assoluta?
Sicuramente l’ambizione verso il raggiungimento di uno stile di vita occidentale costituisce per molti di loro un ideale verso cui tendere, ideale che spesso si rivela illusorio. Tutti partono per motivi diversi, ma effettivamente molti di loro partono per arrivare in Europa e raggiungere quella meta tanto sognata di “benessere” occidentale. Uno dei nostri protagonisti parte addirittura con l’obiettivo di realizzare il suo sogno e diventare un calciatore professionista. Oltre a questo, però, nel nostro caso il calcio non è solo un sinonimo di fama e successo; esso rappresenta invece anche e soprattutto quel breve momento di unione e integrazione per persone che, una volta lasciato il campo, saranno di nuovo sole e in balia delle difficoltà di quella società che avevano tanto sognato.