E’ ancora recente la notizia che la prima stagione di Manifest ha ottenuto dalla rete (la NBC) l’incarico di portare gli episodi a sedici, aggiungendone tre in più a quelli originariamente previsti. E se non è sinonimo di qualità, è di certo indice che questo nuovissimo serial abbia centrato l’obiettivo principale: che potrebbe sembrare essere produrre televisione di qualità, ma in realtà è di entrare nel cuore dello spettatore. E non è che uno escluda l’altro, o non lo implichi.
Partiamo però dall’inizio. Lost: croce e delizia del critico, spartiacque come Twin Peaks di una nuova forma d’intrattenimento televisivo, caposaldo di un modo moderno e trans mediale di intendere l’intrattenimento e la serialità, ma anche e soprattutto di come scriverla. Infatti il racconto di storie drammatiche interconnesse tra di loro che fanno leva, e spesso trovano il loro pretesto per nascere, da un evento inspiegabile e/o un mistero paranormale, è ormai diventato di uso comune, espediente principe per attirare pubblico e fidelizzarlo fino alla fine -che sia l’ultimo episodio della stagione o l’ultima stagione.
E Manifest con Lost ha più di un punto di contatto, partendo proprio dalla trama che vede i passeggeri di un volo presi nella rete di un mistero che all’apparenza è inspiegabile: chi ha volato infatti sull’828, dalla sua partenza all’arrivo non ha trascorso sul mezzo solo una manciata di minuti, bensì cinque lunghi anni, mentre per il resto del mondo il tempo sembra essersi fermato. L’esordio, proprio per questa fortissima assonanza con il capolavoro di Abrams e Lindelof, è partito in sordina: perché l’impressione era che, dopo il botto iniziale di una trama arzigogolata e curiosa, poco altro si potesse aggiungere per mettere pepe alle storie. In più, psicologie e personaggi tagliati con l’accetta, attori sul livello di guardia, storie che sapevano di deja-vu.
Ma Manifest è stato bravo a catalizzare l’attenzione del pubblico per assestare il colpo definitivo alla fine della prima puntata e inanellare poi un colpo di scena, anzi, un cliffhanger dopo l’altro per ogni finale di puntata. Rendendo così chiara la sua natura: non, come Lost e affini, un mistery che nascondeva velleità di prodotto d’autore con indagini psicoanalitiche e risvolti sociali, bensì un semplicissimo, bellissimo prodotto medio che non chiede altro che l’attenzione di chi guarda, intrattenimento di classe che sfrutta il genere ma porta a casa il risultato.
Manifest ha una messa in scena ordinaria, interpreti dignitosi e nessun tipo di qualità visiva: ma narrativamente non lascia scampo, e questo gioca enormemente a suo favore. Tenendo sempre conto che si parla delle prime tre puntate, c’è la forte e fondata impressione che di un serial come Manifest ce ne sia bisogno nella serialità generalista, perché non è possibile guardare sempre roba densa e piena di dettagli, perché a volte la minima sfumatura può stancare e c’è anche un forte bisogno, nel pubblico come nell’immaginario, di serie dignitose che stimolino l’attenzione senza far leva su alcun senso artistico, che riportino la narrazione al suo livello zero per la sua principale funzione, ovvero quello dell’affabulazione pura e semplice, che fa si che alla fine dell’episodio ci sia l’assoluto bisogno di aspettare il secondo. Senza ansie d’autore. Insomma, il classico, imprevedibile e necessario guilty pleasure.
di GianLorenzo Franzì