‘Noi credevamo’ il film in cui Mario Martone racconta il Risorgimento
Un grande affresco antiretorico che gronda sangue, un susseguirsi infinito di tradimenti, di errori e persino di orrori: questo è il Risorgimento messo in scena da Mario Martone con Noi credevamo: un trattato sulla “filosofia della storia” e il suo divenire
Noi credevamo è un film del 2010 diretto da Mario Martone su sceneggiatura dello stesso regista e di Giancarlo De Cataldo, liberamente ispirato a vicende storiche realmente accadute e al romanzo omonimo di Anna Banti. Ambientato durante il Risorgimento, il film segue le vicende di tre giovani che si uniscono alla Giovine Italia animati da ideali patriottici e repubblicani. Presentato in concorso alla 67ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il film è uscito nelle sale cinematografiche il 12 novembre 2010. Candidato a tredici David di Donatello, ne ha vinti sette, tra cui quelli per il miglior film e la miglior sceneggiatura. La colonna sonora del film comprende musiche da opere di Giuseppe Verdi (Don Carlo, Rigoletto, Il corsaro, Attila, Ernani, Otello, Macbeth, I masnadieri, I vespri siciliani), Gioacchino Rossini (Elisabetta, Regina d’Inghilterra, Guglielmo Tell) e Vincenzo Bellini (Il pirata) eseguite dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai diretta da Roberto Abbado.
Con Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco, Francesca Inaudi, Andrea Bosca, Edoardo Natoli, Luigi Pisani, Guido Caprino, Michele Riondino, Andrea Renzi, Renato Carpintieri, Ivan Franek, Stefano cassetti, Franco Ravera, Roberto Di Francesco, Toni servillo, Luca Barbareschi, Fiona Shaw, Anna Bonaiuto.
La trama di Noi credevamo di Martone
In occasione dei 150 anni dell’unificazione italiana, un colossale affresco del cammino che si compì nell’Ottocento, in un periodo che va circa dal 1830 al 1870, raccontato attraverso le vite di tre giovani rivoluzionari, due dei quali appartenenti all’aristocrazia e uno di estrazione popolare.
La recensione
Un grande affresco antiretorico che gronda sangue, un susseguirsi infinito di tradimenti, di errori e persino di orrori: questo è il Risorgimento secondo Mario Martone messo in scena con Noi credevamo, straordinario apologo che parla del passato ma con lo sguardo impietosamente rivolto al presente che il regista costruisce come una struttura complessa che si regge tutta su corrispondenze interne, fatta di rimandi e di ritorni, senza mancare però di gettare ogni tanto rapide occhiate verso l’esterno e il futuro. Quello che viene rappresentato potremmo definirlo un trattato sulla “filosofia della storia” e il suo divenire, con quel tormentato rincorrersi di idealismi truffati dalle leve del potere e di uomini che si aggirano delusi e spaesati fra le nebbie della storia (o peggio ancora tra le sue rovinose macerie), privati persino della speranza, perché a loro, a quelli che sono sopravvissuti o sono venuti dopo, è rimasto soltanto il doloroso stupore della disfatta fatto di solitudine profonda e di disillusione.
Il film è interamente costruito su materiali storici – è Martone che parla –, i personaggi e gli avvenimenti descritti, si basano oltre che sul libro della Banti, su lettere, scritti e documenti soprattutto d’epoca. L’ispirazione per questo lavoro però viene dal presente.È stato il mio smarrimento personale, il desiderio di capire meglio la realtà che mi circonda a guidarmi verso questa storia. Desideravo mettere lo spettatore in condizione di individuare un rapporto con il nostro presente, creando una sorta di ponte senza però strizzare l’occhio all’attualità. In questo senso, l’Ottocento che proponiamo non è stato tanto ricostruito quanto piuttosto “ricavato” nel (e dal) nostro presente.
Noi credevamo si presenta come una sorta di controcronaca di un momento (e un movimento) fra i più miticizzati del nostro passato, imperniata però volutamente sulle pagine meno conosciute e sulle trame più oscure e solo parzialmente divulgate (mentre i fatti più eclatanti si percepiscono come di riflesso, quasi in controcampo); questa è la prospettiva scelta dal regista: rappresentare il tutto privilegiando però eventi che dentro un’ambientazione storica perfettamente definita, potrebbero essere considerati secondari (o – molto più allusivamente – persino “collaterali”), soprattutto quelli – e sono tanti – che non offrono certo una visione molto edificante di quell’esperienza che è stata fondamentale per l’unificazione di questa nostra Italia disastrata. Per Martone la storia non è il mito, rappresenta certamente la “memoria”, ma ha bisogno di essere (ri)strutturata per poter essere poi riproposta in maniera dialettica, partendo certamente dai “vincitori” (non se ne può mai fare a meno), ma concentrandosi soprattutto sui “perdenti” che meglio consentono di guardare davvero in faccia e fino in fondo la realtà, che è forse anche l’unica maniera disponibile per sollecitare un confronto costruttivo che può aiutare a stimolare un’analisi strutturale delle cose senza infingimenti. Ed è per questo allora che come contrapposizione oggettiva alle incrostazioni di un dannoso “celebrazionismo”, con questa sua opera Martone ha preferito darci una versione più radicale e repubblicana di quell’Italia umbertina gretta e meschina in cui il fallimento rivoluzionario, che riguarda tutta la nazione, è unito alla sofferenza dei meridionali che quel fallimento l’hanno dovuto subire più di tutti gli altri e soprattutto sulla propria pelle.