Boy Erased di Joel Edgerton è l’ennesimo film, presentato nella selezione ufficiale della Festa del Cinema di Roma, in linea con la tendenza del festival di quest’anno a scegliere di proiettare pellicole a tema che denuncino l’attuale, sempre maggiore e progressiva deriva culturale, sociale, politica verso un mondo in cui le diversità e le minoranze vengono stigmatizzate e non valorizzate, e in cui la democrazia e il rispetto dell’essere umano e della sua individualità sono sempre meno scontate. Una tendenza senza dubbio apprezzabile e sacrosanta dati i tempi che corrono ma che, a parte qualche caso sporadico, non corrisponde alla qualità dei film, né all’approfondimento e all’elaborazione che si confarebbero a una condizione attuale così complessa e multiforme.
Insieme ad altri film, come per esempio Se la strada potesse parlare di Barry Jenkins, anch’esso presentato nella selezione ufficiale, Boy Erased potrebbe essere ascritto a quel filone di pellicole che si impegnano a dire qualcosa di importante, ma lo fanno in modo sterile, impersonale, molto più concentrati sull’intento che non sulla modalità di raggiungerlo e, quindi, sulla sua riuscita, che magari sarebbe migliore se ci fosse un’accurata caratterizzazione dei personaggi, un linguaggio un po’ meno scontato e banale, degli espedienti cinematografici che elevino il lavoro a qualcosa di più artistico e meno didascalico. Altra propensione di quest’anno è quella di proporre film ispirati a storie vere o documentari (Fahrenheit 11/9, They shall not grow old, Beautiful boy, Kursk), attingendo a fatti accaduti e prediligendo quindi il racconto del reale, probabilmente in modo da coinvolgere maggiormente il pubblico.
Boy Erased è l’adattamento dell’autobiografia scritta dal giornalista Garrard Conley e pubblicata nel 2016 negli Stati Uniti. Un resoconto abbastanza ordinario della storia di una vittima dell’ignoranza e dell’ottusità dei genitori (padre rigido e intransigente, madre passiva e sottomessa), che in seguito alla confessione da parte del figlio diciannovenne della sua omosessualità, reagiscono iscrivendolo a un mostruoso programma di redenzione che dovrebbe guarirlo da questo demone che lo rende anormale e deviato. Su cotanta ignoranza influisce, favorendola e dandole connotati aberranti, una stereotipata, anche se purtroppo spesso realistica, Chiesa bigotta, che contribuisce, accentuandoli, sia al senso di alienazione del ragazzo che all’analfabetismo empatico e affettivo dei genitori. Per quanto la descrizione di questa struttura rieducativa sia talmente grottesca da apparire ridicola e poco credibile, comprendendo tutta la vasta gamma possibile di atrocità, dal costringere i ragazzi ad andare in bagno accompagnati, vietar loro ogni contatto, insegnargli le pose virili e obbligarli a dire di odiare i propri genitori, alle punizioni corporali con tanto di cerimoniali macabri che prevedono colpi di bibbia sulla schiena, il film denuncia giustamente il fatto che istituti in cui la “terapia della conversione” è ancora praticata siano presenti tuttora in tutto il paese.
Edgerton, al suo secondo lungometraggio, dopo un thriller in cui comunque erano già presenti tematiche di stigma (in quel caso si trattava di bullismo), si avvale di un cast di alto livello, che conta Lucas Hedges, giovane promessa particolarmente in auge in questo periodo dopo la sua partecipazione, tra le tante, a Manchester by the sea, che incarna il protagonista Jared, Nicole Kidman e Russell Crowe nel ruolo dei genitori di Jared, Xavier Dolan che si cimenta stavolta in una performance da attore, e se stesso a interpretare l’educatore del terribile istituto. Tutti abbastanza in parte, ma senza infamia né lode le loro prove di recitazione, quasi a volersi amalgamare con il poco spessore del resto del film. Piuttosto banali anche i dialoghi, che non danno un apporto significativo se non quello di accompagnare in modo convenzionale lo svolgersi del racconto. L’aspetto forse più efficace, seppur anch’esso non certo originale, è quello della distorsione costantemente evidenziata, derivante dall’assurda convinzione che si possa e si debba cambiare qualcosa che è proprio della persona, dell’individuo; gran parte del racconto insiste sull’assoluta impossibilità di attuare questo tipo di cambiamento, di come questo sia una violenza, opponendogli la verità trasmessa dalle espressioni dei ragazzi, che, per quanto spaesati e molto diversi tra loro, comunicano tutti la totale consapevolezza che così come non possono cambiare il colore degli occhi, non potrebbero mai cambiare il loro orientamento sessuale. È espresso attraverso un contrasto anche il biasimo nei confronti della chiesa, da una parte insistendo sull’assurdità della sua affermazione di come l’omosessualità sia un comportamento, una scelta, identificata come male da combattere, tentazione del diavolo, allontanamento da Dio, con conseguente necessità di ritrovare la retta via, dall’altra parlando attraverso la voce di un personaggio marginale, ma forse tra i più incisivi nelle seppur due o tre scene in cui compare, che asserisce di essere convinto che siamo noi stessi il nostro Dio, che Dio non sia da qualche parte a osservarci, esterno a noi, ma che sia in ognuno di noi. Niente di particolarmente sconvolgente o innovativo, ma convincente. Tutto questo viene rappresentato in modo abbastanza scontato, sacrosanto ma per niente originale, privo di guizzi di qualsiasi genere. Tutto procede come atteso, niente stupisce, dall’inizio alla fine di un lavoro probabilmente sincero e opportuno nelle intenzioni che però non sono sufficienti per farne un buon film.