The Haunting of Hill House, serie acquistata per la distribuzione da Netflix e creata da Mike Flanagan sulla base del romanzo omonimo scritto nel 1959 da Shirley Jackson, è una serie horror confezionata con maestria disarmante, un prodotto capace di inserire nella testa dello spettatore un’atmosfera specifica, riconoscibile e ingombrante. Nel particolare a colpire sono la padronanza della grammatica di genere e la profondità della gestione del prisma dei sentimenti; più generalmente l’ampia distensione tematica e la soffocante contrazione dell’obiettivo narrativo: elementi spia, indizi di qualità e grilletti per l’esplosione, anche dopo solo dopo due episodi, di una partecipazione emotiva ottenuta con vigore puntuale e trattenuta da un fascino avvolgente, partecipe della forza archetipa della classica storia di fantasmi e case infestate, ma anche potenziato da un’asse diegetico interessato alla storia degli individui, dei vivi, dei membri di una famiglia devastata da uno stress post traumatico condiviso e ammortizzato nel tempo.
Flanagan costringe la natura apparentemente usuale della storia dentro a canali formali ricercati: sia per soddisfare la pretesa – da parte di spettatori sempre più responsabili nella scelta qualitativa delle loro visioni – di uno spettacolo intelligente e competitivo sia per costruire su basi audiovisive creativamente accattivanti una struttura narrativa inizialmente derivativa ma mossa verso orizzonti visuali originali e ambiziosi. Il comparto formale tratta con raffinatezza le immagini come un insieme di parole da disporre sul piano comunicativo, piegando più temporalità dentro a singole inquadrature grazie ad assonanze visive molto evidenti (eppure mai stancanti); formando delle ellissi di senso attraverso rime puntuali e sintetiche; posizionando accenti di peso narrativo in punti di rilevanza climatica e scegliendo un movimento lento e perifrastico per intercettare quello veloce e sintetico dello spavento. L’impaginazione formale dei contenuti inspessisce la forza della trama e ne raffina le suggestioni.
Le prime due puntate oltre a compiere un lavoro di introduzione e avvio ottimale (nell’ottica di dieci episodi complessivi) riescono a comunicare il malessere esistenziale che si evince dalle premesse e si dispiega piano piano durante la visione. L’epicentro tematico del racconto è infatti la profonda crepa formatasi nella famiglia Crain in seguito a un evento terrificante, la rottura della loro compatta struttura famigliare, lo strappo nell’armonia del loro corpo unico. Quale invece l’obiettivo diegetico? Costruire narrativa per raccontare la decostruzione emotiva; architettare metafore per dare forma contenutistica all’assenza di senso, alla presenza del vuoto pneumatico nell’architettura degli organi; tematizzare lo spettro di sensazioni sfuggenti in un complesso strutturale di significati labirintici. Sbirciare in una crepa del mondo, scoprirci l’abisso e regalarlo ai suoi spettatori.
Leonardo Strano