La prima cosa che salta all’occhio durante la visione di An impossibly small object di David Verbeek, presentato nella selezione ufficiale della Festa del Cinema di Roma, è la presenza costante del blu. Un colore che pervade la maggior parte delle inquadrature, dando loro una luce estremamente avvolgente, molto affascinante. Verbeek si muove parallelamente su due piani, uno più intimo e personale, nel quale tratta temi come la perdita, la reciprocità, l’amicizia, facendolo dal punto di vista di due bambini e, quindi, usando un registro molto dolce ed esplicito. L’altro piano è più astratto, o quantomeno dovrebbe esserlo , in cui il regista utilizza il suo personaggio principale, un fotografo olandese sempre in viaggio che predilige l’oriente per i suoi lavori, per riflettere, a partire dalla sua ricerca artistica, sull’immagine, sulla luce e su ciò che questi aspetti evocano e proiettano in una dimensione più profonda, interiore, dove tempo e spazio non sono governati dalle stesse leggi, dove la luce concentra “tutta la sua massa in un punto infinitamente piccolo senza volume, né superficie”, qualcosa che può attrarre e risucchiare ogni istanza, che può manifestarsi a livello artistico, personale, relazionale.
“Le persone possono essere dei buchi neri. Possono consumarti”. Verbeek ha la possibilità di sfruttare le atmosfere rarefatte e carismatiche di Taipei, dove ambienta tutta la prima parte del film, che è anche la più convincente, alternando il tono delicato espresso dalla purezza e dall’innocenza dei bambini a venature horror caratterizzate dall’inserimento di alcune maschere tradizionali orientali particolarmente suggestive e inquietanti. La seconda parte del film, invece, è ambientata in Olanda e, oltre a essere decisamente meno enigmatica e affascinante nei contesti rappresentati, che qui sono molto più ordinari e concreti, è gravata da un eccessivo spazio dato alla spiegazione di concetti che, probabilmente, sarebbe stato più bello esprimere in modo meno esplicito e invece lo sono in maniera troppo didascalica. Si tratta di concetti anche piuttosto interessanti ma palesati in modo troppo dichiarato, così da renderli meno stimolanti. A un certo punto il protagonista riflette o quantomeno cerca di confrontarsi con la sua fidanzata sul senso di focalizzare il suo campo di interesse quando fotografa, su stratificazioni urbane e condizioni indefinite piuttosto che su situazioni o persone che conosce, mentre e lei non riesce a capire che senso possa avere concentrarsi su qualcosa di non concreto. È un discorso interessante e condivisibile ma è tutto espresso verbalmente nei minimi dettagli, il che ne riduce la forza sia attrattiva che comunicativa.
In entrambe le parti del film si allude alla distanza tra il mondo occidentale e quello orientale ed è evidente l’esigenza del regista che si esprime attraverso il suo personaggio, di farli interagire, di creare canali di comunicazione tra l’uno e l’altro, magari astratti, senza tempo, oltre lo spazio, ma che in qualche modo gli diano modo di legarli, dando così maggior respiro a un mondo troppo limitato, definito, cui la concretezza sta stretta. È efficace l’assunto iniziale da cui Verbeek parte per poi mettere in gioco tutte le sue elucubrazioni, una foto scattata a una bimba che gioca con un aquilone. Una foto che lo colpisce senza che debba spiegare perché, senza che abbia un significato preciso ma che catalizza la sua attenzione e mette in moto la sua immaginazione, portandolo a studiarla nel tempo e, attraverso questo studio, a entrare in contatto con se stesso, con le sue contraddizioni e con il suo essere.
Una sorta di percorso indefinito ma non troppo, quindi, An impossibily small object, in cui l’autore tende a sottolineare quanto non debba e non voglia dare una spiegazione alle e cose, delle risposte, un senso, e preferisca lasciarli al fluire del pensiero di ognuno, ma ci tiene talmente tanto a questo concetto da renderlo troppo esplicito in qualche modo contraddicendosi. O forse lo fa in maniera voluta, proprio per evidenziare il contrasto tra il farlo e il non farlo. Chi lo sa. Un lavoro suggestivo, ma forse un po’ discontinuo, che ha i suoi elementi di forza ma che non osa tanto da fidarsi davvero delle sue non risposte e del reale fascino di non darle. Il film è stato già presentato al Rotterdam Film Festival.