Festival di Roma

Festa del Cinema di Roma: Beautiful boy di Felix Van Groeningen, non solo un classico melodramma ma anche la narrazione di un grande dolore

Ispirandosi alle due biografie dei veri David e Nick Scheff, interpretati rispettivamente dai bravissimi Steve Carrel, ormai sempre più a suo agio nei ruoli drammatici, e da Timotee Chalamet, le cui doti e la cui bellezza sono state già ampiamente e meritatamente apprezzate nella sua performance in Call me by your name di Luca Guadagnino, Felix Van Groningen racconta lo sfacelo e il tormento vissuti da una famiglia

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Seppur pieno di difetti, strumentale e melodrammatico nell’accezione più negativa del termine, ci sono diversi elementi in Beautiful boy, diretto da Felix van Groningen e presentato alla Festa del Cinema di Roma, che lo rendono “inevitabilmente toccante”. Elementi che forse dal punto di vista cinematografico non sono particolarmente rilevanti e non conferiscono qualità al film in quanto tale, in quanto cinema, ma che, forse, consentono di dare un senso e un significato un po’ meno ingrati a questa operazione e di esprimere un giudizio non troppo severo. Cercando appunto di trarre dalla visione gli ingredienti positivi del film, di passare sopra, anche solo per un attimo, per quanto possibile, alla manipolazione dello spettatore nella ricerca della facile commozione e alluso di diversi espedienti per ottenere questo risultato, a discapito di una narrazione più naturale e sincera, tralasciando l’utilizzo di qualche flashback di troppo che rende il tutto poco fluido in alcuni punti anche dispersivo, non si può non convenire sul fatto che Beautiful boy, mettendo in scena qualcosa di universalmente riconosciuto come uno dei più strazianti e gravi problemi che possano affliggere un individuo o una famiglia e facendolo attraverso l’ottima interpretazione di due attori che hanno comunque lavorato in modo impeccabile, possa non essere un prodotto del tutto biasimabile.

Ispirandosi alle due biografie dei veri David e Nick Scheff, interpretati rispettivamente dai bravissimi Steve Carell, ormai sempre più a suo agio nei ruoli drammatici, e da Timothée Chalamet, le cui doti e la cui bellezza sono state già ampiamente e meritatamente apprezzate nella sua performance in Call me by your name di Luca Guadagnino, Felix Van Groningen racconta lo sfacelo e il tormento vissuti da una famiglia, e in particolare da un padre il cui figlio si inabissa nel vortice infinito della tossicodipendenza. Per quanto il regista, così come nel suo precedente Alabama Monroe, porti avanti una direzione abbastanza discontinua, non sempre centrata, caratterizzata qua e là da perdite di ritmo e della connessione emotiva con lo spettatore, riesce a far emergere abbastanza bene dal racconto gli aspetti più tipici della condizione vissuta dai suoi personaggi. In particolare, la mancanza di equilibro tra la necessità di controllo da parte di un genitore, che seppur estremamente affettivo, riempie talmente tanto di attenzioni il figlio che questi poi non è in grado di farne a meno, e la altrettanto fondamentale necessità di autonomia di un figlio che a un certo punto ha bisogno di demarcarsi per trovare se stesso ma non ce la fa. Lo stesso controllo che poi diventa una morsa insidiosa, che non fa altro che trasmettere eterna sfiducia: quando un figlio ha avuto talmente tante ricadute da aver instillato nel padre un terrore continuo, impossibile da debellare, che lo porta, appunto, a non fidarsi mai di lui, si sentirà sempre meno capace di potercela fare e sempre più visto e riconosciuto nella sua fragilità e impossibilità di farcela. È un circolo vizioso inevitabile che rende impotente chiunque si ritrovi a viverlo, sia dalla parte del figlio che da quella del padre.

Ancora, è ben reso il fatto che la droga non rappresenti altro che la superficie di un problema, di come essa sia semplicemente lo strumento con il quale si cerca di gestire il vero problema, che Nick chiama “buco nero dentro di lui”, qualcosa che le sostanze stupefacenti, fin dalla sua più tenera età, attenuano, alleggeriscono, “attenuano la stupidità della realtà quotidiana” risponde al padre quando questi gli chiede spiegazioni e cerca di mettersi nei suoi panni nell’accorgersi che sta iniziando a farne uso. E non basta far parte di una famiglia bellissima dove l’affetto è centrale e presente, pulito, non basta crescere in un ambiente sano, essere circondato da stimoli positivi, avere un buon livello culturale. Perché diverse variabili – in questo caso forse la separazione dei genitori e la particolare sensibilità di un bimbo che cresce stimolato e sviluppa un animo artistico – contribuiscono a determinare degli stati emotivi che il ragazzo non riesce a gestire, che non tollera, che sente il bisogno di alleviare, rendere meno frustranti, e quando scopre che può farlo e lo può fare addirittura aggiungendovi benessere, la tragedia è fatta, diventa una via senza ritorno.

Steve Carell è veramente bravo nell’esprimere l’impotenza, la disperazione, l’affetto infinito che unito a quel dolore è una punizione insopportabile. La presa di coscienza di non poterlo aiutare per quanto possa volerlo, il doversi violentare per rifiutargli quella presenza diventata inutile e forse dannosa. E sapere che esserci non serve, ma non esserci significa lasciarlo morire. Che qualsiasi cosa faccia, non c’è via di uscita. Ed è altrettanto bravo timothée chalametfelix van groeningenTimothée Chalamet, capace di rendere molto bene l’espressione di due occhi caduti in quell’oblio che riesce a spegnere qualsiasi bellezza, anche la sua. Certo, sono tutti elementi non prettamente cinematografici, che non sono sufficienti per fare un film, che forse puntano in faccia allo spettatore un dolore troppo facile, e lo fanno in modo anche un po’ subdolo, ma sono tutti aspetti di Beautiful boy con i quali nel bene e nel male ci si trova a doversi confrontare. Alcuni potrebbero considerarlo solo un male, ma forse, sarebbero troppo severi. Ci piace provare a salvare il salvabile.

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