Perché avete deciso di raccontare oggi la genesi di un’opera che, uscita in un’epoca d’impegno civile e sociale, ebbe il merito di squarciare il velo dell’oblio su un evento che rappresenta uno dei più gravi crimini di stato mai avvenuti nel secolo scorso in uno paese democratico (anzi in quella che viene definita la culla della democrazia)?
In un periodo in cui l’intrattenimento è spesso visto solo come svago, ricordare che il cinema è in grado di essere un veicolo potente per le idee e un testimone importante della società ci è sembrato un ottimo spunto da cui partire. L’idea di raccontare come il film di Giuliano Montaldo sia riuscito a muovere l’opinione pubblica fino al punto di forzare la mano al Governatore del Massachusetts e riabilitare Sacco e Vanzetti ne è un esempio perfetto.
Alla sua uscita, il film scosse le coscienze non solo da noi, ma anche oltreoceano, tanto che, pochi anni dopo, Sacco e Vanzetti furono riabilitati dal governatore del Massachusetts. Il disinteresse per la sorte dei due connazionali, ingiustamente accusati e condannati a morte, caratterizzò l’Italia fascista d’allora, mentre l’opinione pubblica americana si divise fra chi reclamava un processo equo e chi, invece, imputava agli accusati colpe che non appartenevano loro, vedendoli come una minaccia al sistema politico del proprio paese. Pensate che il pericolo di un simile linciaggio a danni di un imputato innocente sia ancora possibile ai nostri giorni?
L’opinione pubblica di oggi è molto distratta. Siamo continuamente bombardati da informazioni che si susseguono continue. Paradossalmente la sovraesposizione alle informazioni ci rende più ignoranti, più insensibili. Quindi non crediamo che oggi si possa mantenere l’interesse su un unico fatto tanto da creare un movimento globale come quello che ha difeso Sacco e Vanzetti.
Il film di Montaldo costituisce oggi un esempio di come il cinema possa fungere da memoria storica di un evento tanto drammatico e tragico: attraverso il racconto cinematografico, la Storia rimane scolpita nella memoria dello spettatore, quale monito a non dimenticare. Il vostro documentario, a molti anni di distanza dall’uscita del film, sembra voler assolvere alla stessa funzione. Era questo il vostro intento quando l’avete e progettato e girato?
L’idea era quella che stendere un filo che unisse il fatto storico Sacco e Vanzetti con il film di Montaldo per arrivare al nostro, proprio per sottolineare che la Storia è un flusso continuo che lega tutti i fatti e tutte le epoche. Noi siamo influenzati da quello che è successo ieri e influenzeremo quello che succederà domani. Così funziona la Storia.
Il documentario illumina anche un modo di concepire e fare il cinema, iniziato alla fine degli anni sessanta e proseguito nel decennio seguente, animato da una forte tensione etica e civile, che nel nostro paese è ormai da tempo scomparso. Lo spettatore si trova così a compiere un doppio viaggio nel tempo: quello di Sacco e Vanzetti e del loro processo e quello in cui Montaldo diresse il film che quell’evento rievocava. Com’è stato, per voi, ascoltare dalla viva voce del regista e del compositore il ricordo della lavorazione del film e della sua ricezione?
Abbiamo sempre guardato al cinema civile come fonte d’ispirazione, non solo stilistica, ma di coerenza e determinazione. Registi come Montaldo, ma anche Petri o Lizzani, solo per citarne alcuni, hanno avuto il coraggio di dare voce e immagini alla società di cui facevano parte senza piegarsi a dinamiche di mercato. Sentire il racconto di Montaldo è stato come aprire la finestra per cambiare l’aria nella stanza. Una boccata d’aria fresca.

Oggi, in un’epoca di disimpegno che, come si diceva, dura ormai da parecchi anni, un esempio d’arte engagée come quello rappresentato dal film di Montaldo può apparire quasi fuori tempo e inattuale. Quant’è necessario, invece, secondo voi, ricollegarsi a quel periodo in cui il nostro cinema si faceva carico, spesso con risultati assai efficaci, di raccontare episodi storici e di connetterli al presente (penso ad opere quali Allosanfan dei Taviani e a Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno mai raccontato di Vancini, ambedue quasi coevi al film di Montaldo)?
Il cinema deve prendersi carico della critica sociale; è forse l’unica, vera forma d’arte che ha la forza e la capacità espressiva per diventare testimone della storia. Purtroppo in questo periodo è il mercato a definire i progetti e non gli autori.
Il documentario racchiude anche un monito esplicito affinché gli eventi immortalati e condannati nel film di Montaldo non possano più accadere: quasi una sorta di memento che, attraverso le parole del regista e di quanti furono allora coinvolti nella realizzazione dell’opera, oltre che dello stesso Nicola Sacco (di cui una voce fuori campo legge brani di lettere inviate ai familiari dalla prigionia), si riverbera sullo spettatore. Ritenete che il cinema, narrativo e documentario, possieda ancora la forza e la capacità di scuotere la coscienza dello spettatore e di spingerlo a riflettere sugli errori della storia per renderlo un cittadino più attento e consapevole, capace di difendere i diritti propri e altrui dai soprusi del potere?
A differenza del cinema civile a “soggetto”, il cinema documentario sta avendo un buon momento. Il pubblico sta riscoprendo il cinema del reale. Solo 7-8 anni fa era impensabile avere una distribuzione in sala per un documentario, questo è un indicatore importante. Ad ogni modo, magari “scuotere” no, ma dare un colpetto forse si. Noi ci crediamo.