Sempre sarcastica e tagliente ma molto più inquietante, volutamente spaventante, dolorosa, la voce di Michael Moore nel suo decimo documentario, Fahrenheit 11/9, attesissimo e presentato ieri alla Festa del Cinema di Roma. Il cineasta americano gioca con il titolo del suo ultimo film, invertendo semplicemente la numerazione rispetto a quello di uno dei suoi lavori di maggiore successo, Fahrenheit 9/11, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2004. Questa volta Moore, che nel primo caso si riferiva alla tragedia abbattutasi sugli Stati Uniti l’11 settembre 2001, si concentra su un’altra data, il 9 novembre del 2016, quella in cui Donal Trump è stato eletto 45esimo presidente degli USA, e a partire da questo emette un corposo, seppur forse non del tutto organico e lineare, ma potente e disperato, grido di allarme rivolto direttamente al pubblico, alla gente in genere, a qualsiasi orecchio voglia ascoltare, dal quale traspare più di tutto, più dei difetti tecnici, dell’essere grossolano, del suo protagonismo, la necessità assoluta di svegliare gli animi, di smuovere qualcosa in una realtà sempre più mortifera e preoccupante di cui il regista si fa testimone e critico sgomento.
Inizia con la “sfilata della vergogna” l’excursus presentato da Moore che, in modo ironico e pungente, mostra i giorni immediatamente precedenti l’elezione fino alla nomina di Trump, sottolineando l’assurdità di una candidatura talmente inopportuna da apparire ridicola e non essere presa sul serio, poi diventata realtà, fino al punto di diventare davvero un successo, sino quel momento visto come una barzelletta. Può essere tacciato di dispersività il regista statunitense, accusato di essersi proposto in modo da non centrare perfettamente l’ampia materia di cui tratta, ma tutti i temi affrontati convergono in un unico canale all’interno del quale fluisce, potente e palese, una triplice esigenza, informativa, di allarme e di speranza.
Prima di tutto, quella di informare sui fatti e di rendere accessibile a un pubblico il più ampio possibile le principali motivazioni per le quali l’America si trova in questa situazione allarmante di maggiore distanza dalla democrazia e sempre più vicina alla perdita della libertà del pensiero critico e della capacità di reazione. Cosa è avvenuto, come è avvenuto, come sia stato possibile, come lo sia ancora, cosa si sta rischiando. Questa componente informativa del film si muove attraverso diversi ambiti, tra i quali, in prima linea, le accuse nei confronti delle scelte politiche dei Democratici che avrebbero contribuito fortemente a rendere possibile l’ascesa e il successo di Trump, accuse che non risparmiano né Obama, né Hillary Clinton, i quali vengono aspramente criticati per la loro gestione rispettivamente della presidenza e della campagna elettorale.
Un congruo spazio viene dato alle vicende riguardanti l’avvelenamento da piombo dell’acqua potabile della cittadina di Flint, dove è nato Moore, una delle più povere in America, abitata prevalentemente da neri; uno spazio per alcuni eccessivo, essendo un argomento che si discosta dal tema principale, ma probabilmente costituente la parte più toccante del film, che consente di farsi un’idea di come sia stato possibile al giorno d’oggi, senza che nessuno intervenisse, che venisse messa in atto una vera e propria pulizia etnica. Un’operazione che ha avuto come ingrediente principale e pesante, come il piombo che ha avvelenato e fatto ammalare irreversibilmente e morire tanti innocenti, in gran parte bambini, il silenzio. Il silenzio consapevole, spregevole e vergognoso del governatore del Michigan Rick Snyder, che ha taciuto e nascosto i risultati delle analisi del sangue degli abitanti nel momento in cui decretavano un livello di piombo che superava abbondantemente il limite ritenuto tollerabile, rendendosi colpevole di un vero e proprio crimine. Il silenzio imposto a chi ha cercato di metter in luce i dati. Il silenzio compiacente e superficiale (a voler essere buoni) di Obama, atteso dagli abitanti della città come un eroe che li avrebbe salvati e venuto, invece, a interpretare un teatrino infimo che li ha delusi infinitamente, facendo crollare ogni fiducia in lui e nella politica e contribuendo così alle successive votazioni.
“Se continui a ripetere alla gente che il loro voto non conta, poi finisce che ci crede”.
Moore si concentra anche sulla protesta degli insegnanti del West Virginia e sul movimento creato da migliaia ragazzi a partire dalla sparatoria avvenuta in una scuola di Parkland, che, indignati e terrorizzati da come la disponibilità di armi abbia consentito a un loro coetaneo di abbattere davanti ai loro occhi delle vite innocenti, auto organizzandosi e mossi da uno slancio vitale e energico, proprio della loro età, sono riusciti a far emergere una voce veemente e carica di speranza, l’unica speranza cui il regista si affida in tanta desolazione, e che rappresenta la seconda delle tre esigenze espresse nel documentario.
La terza è quella di esprimere il senso di allarme, di spaventare lo spettatore, condividendo la preoccupazione di fronte a ciò che si sta verificando non solo negli Stati Uniti ma globalmente, che culmina nel finale con il, se vogliamo non certo delicato e sottile ma efficace nel suo intento, paragone con Hitler, nelle modalità di azione con le quali arriva al potere, con cui comunica attraverso i media, con cui viene sottovalutato. Impossibile non osservare tristemente come tante di queste similitudini, unite a quelle di critica della sinistra, possano sovrapporsi nell’osservazione della attuale situazione politica del nostro paese. Per quanto effettivamente abbia aperto tante finestre narrative, che non sempre è stato in grado di gestire al meglio, Moore ha risposto alla necessità di mettere in luce tanta, troppa indegnità, cercando comunque di legarle tra loro e di farle confluire in un unico fine.
Seppur in modo irruento e non certo sofisticato o raffinato, il cineasta va dritto al punto, cercando di raggiungere quante più persone possibili. Emerge chiara dal suo documentario l’urgenza di svegliare la gente, di cercare l’accesso a qualsiasi mente o cuore possa reagire a un’onda scura che sta andando in una direzione sempre più pericolosa e infelice che disegna un essere umano vile, squallido e ignavo, quando non violento, incapace di empatia e sprezzante di qualsiasi principio di uguaglianza o di lealtà. Che quando non è razzista, bene che vada è compiacente, codardo, ottuso, cieco. Perché è proprio l’essere umano a uscire così dalla visione desolante di Moore. Non soltanto Trump. Trump non è che l’espressione di un sistema globale sempre più marcio e buio, privo di empatia, sporco. Dove le falsificazioni emergono ovunque, si tratti di analisi del sangue o risultati elettorali, a destra e a sinistra. Moore rispecchia con la sua voce il vissuto di tanti, incredulo, arrabbiato, ma sempre più spesso quasi rassegnato davanti a un tale buio spaventoso e dilagante di fronte al quale sempre più difficilmente ci si riconosce le energie per reagire.