Si potrebbe definire un favolone un po’ sgangherato Il mistero della casa del tempo, l’ultimo film di Eli Roth presentato in seconda giornata, nella selezione ufficiale, alla Festa del Cinema di Roma. Nonostante l’ottimo cast, impreziosito in modo particolare dalla sempre impeccabile ed elegantissima Cate Blanchett, affiancata da Jack Black e da Owen Vaccaro che interpreta il bambino protagonista, Roth, che questa volta sceglie di cimentarsi nel fantasy, non risulta essere del tutto convincente, confezionando un prodotto per bambini forse appena soddisfacente. Il film si delinea per tutta la sua durata attraverso il susseguirsi di elementi narrativi già sfruttati in tutti i modi possibili e ormai privi del phatos che il regista probabilmente vorrebbe attribuirgli mediante l’utilizzo di musiche a effetto, dialoghi “divertenti” o ingredienti rubati all’horror, genere con il quale si trova probabilmente più in sintonia. Ed è proprio la sintonia che forse manca, appunto, in diversi ambiti del film, come, per esempio, tra una colonna sonora particolarmente sontuosa e le vicissitudini che scandisce, che non risultano abbastanza coinvolgenti rispetto all’intensità con cui vengono presentati dalla musica.
La tensione e il ritmo sembrano più costruiti ad hoc attraverso espedienti non troppo efficaci, che non derivanti dal fluire del racconto. Sarà la trama non particolarmente originale, la sceneggiatura è tratta da un romanzo per ragazzi del 1973 di John Bellairs, La pendola magica, e nel suo adattamento comprende una serie di stereotipi tutti riuniti insieme – bimbo occhialuto orfano di genitori deceduti in un incidente che va a vivere da uno zio che non ha la tv in una casa tetra in cui ci sono rumori inquietanti e viene bullizzato dai compagni di scuola perché strano – che per quanto si tratti di un film per bambini, non coinvolgono, né appaiono sufficientemente efficaci al fine di poter coinvolgere nemmeno il target cui è rivolto.
Nelle espressioni e nei gesti, soprattutto quelli di Owen Vaccaro, la messa in scena è un po’ troppo sopra le righe e in alcuni punti appare addirittura finta, poco credibile, vagamente stridente. Anche i concetti espressi e la morale che ne risulta, sono sì sempre validi e collaudati, sacrosanti, ma lo sono, come dire, talmente tanto, da risultare quasi banali, sia nel contenuto che nel modo in cui vengono espressi.
“Nella vita di una persona tutto ciò di cui c’è bisogno è un buon amico”, “che c’è di male nell’essere strano, lo “STRANO” rende tutto interessante”, così la pecora nera diventa cigno e assume un valore invece di essere solo diversa. E quel valore è potente quanto è forte il suo slancio e la sua determinazione nell’affermare se stesso. “Avere un figlio significa avere sempre paura ma farlo lo stesso” quindi è bene consentire al bambino di esplorare senza limitarlo troppo perché possa trovare il suo valore e imparare a essere autonomo seppur sbagliando, costituendo per lui sempre e comunque dei validi punti di riferimento. Concetto sacrosanto che però se non fosse espresso dalla classe della meravigliosa Cate Blanchett forse sarebbe un tantino sfruttato e fin troppo elementare, pur nel suo essere a misura di bimbo. Tanti altri film, più datati o recenti, aventi lo stesso target, rappresentano anche gli stessi concetti in modo un po’ più elaborato e originale. Un po’ più efficace e meno scontato il messaggio finale sull’impossibilità di fermare il tempo e cancellare qualsiasi esperienza o vissuto negativo, a favore dell’affrontarlo coraggiosamente seppur con sofferenza, purché accompagnati da affetti solidi.
Non proprio promosso a pieni voti quindi, questo incontro con il fantasy di Eli Roth, per quanto se ne possa comunque apprezzare la sincerità e l’intento di porsi all’altezza del piccolo spettatore cui si rivolge, di interloquire direttamente con lui, utilizzando un linguaggio vitale e accessibile che possa catturarlo. Lodabile inoltre la versatilità del regista, che pur non essendo totalmente a suo agio nel percorrerli, è passato attraverso generi e target differenti tra loro, sfruttando come denominatore comune sia al fantasy che all’horror l’utilizzo dell’immaginario, a lui forse particolarmente congeniale e affrontandoli audacemente senza risultare mai inadeguato.