Trovare la speranza nel cuore di un’anima persa: non solo per farla rifiorire interiormente, ma anche per farla agire all’esterno, in ciò che la circonda, e permetterle di intervenire sull’irrimediabile. Questa la missione impossibile del quarto lungometraggio di Edoardo De Angelis, che è anche il primo film italiano presentato alla 13ma edizione della Festa del Cinema di Roma diretta da Antonio Monda, con replica domani alle ore 20.30 al Savoy. Un titolo ossimorico, Il vizio della speranza, che gioca tra una delle tre virtù teologali e il vizio che, all’opposto, ne costituisce la negazione.
Per la giovane protagonista, che si muove tra le acque del fiume Volturno e la melma della malavita, sperare equivale a un pericoloso difetto in grado di esporla alle correnti e trascinarla alla disoccupazione e alla morte. Ma lei è già una sopravvissuta perchè era stata inghiottita dal fiume e non era annegata. Si chiama Maria come la sua antagonista, l’attempata e ingioiellata Zi’ Mari che è anche la sua padrona nell’orribile mestiere di traghettare giovani immigrate obbligate a prostituirsi e a vendere i propri neonati. Un nome non casuale in questo film profondamente spirituale, punteggiato da riferimenti religiosi che ne sottolineano il percorso, dall’icona del Bambin Gesù preannunciante la gravidanza, al Cristo mutilato nel tabernacolo che fa da sfondo al momento di maggior sconforto della protagonista, fino all’intensa preghiera finale. Due ottime interpretazioni, Maria affidata alla moglie del regista, Pina Turco, e Zi’ Mari impersonata da Marina Confalone: una lo specchio deformante dell’altra, due facce della medaglia del bene e del male. Ma la maggior parte dei volti di questa storia, quasi tutti femminili, sono di colore. De Angelis ha ritratto la parte più debole e sfruttata della società: persone emarginate in quanto donne, in quanto povere e in quanto straniere. Curiosamente, un’altra coppia di dualismi contraddistingue sia la presenza degli unici personaggi maschili, da una parte il buon salvatore (eccezionalmente caratterizzato da un nome e da un cognome, Carlo Pengue, interpretato da Massimiliano Rossi) e dall’altra il dottore senza scrupoli (Marcello Romolo), sia la presenza degli unici due animali, un cane e un cavallo, che rappresentano simbolicamente la fedeltà e la libertà tra cui Maria deve scegliere.
Il regista, dopo il commovente e pluripremiato Indivisibili (2016), ha realizzato un’altra opera rimarchevole sotto tutti gli aspetti: la sceneggiatura per la quale si è fatto aiutare da Umberto Contarello ci trasporta dentro la corrente fino ad arrivare al mare, la fotografia diretta da Ferran Paredes Rubio ci illumina anche le notti più scure, le musiche originali di Enzo Avitabile si accordano perfettamente con le vicende raccontate, le scenografie di Carmine Guarino riescono ad essere surreali e al tempo stesso verosimili, mentre realistici e credibili appaiono i costumi con cui Massimo Cantini Parrini ha coperto gli abitanti di questo piccolo mondo senza calore ma non privo di speranza, che diventa metafora universale.
Agli spettatori che si alzano subito alla fine dei film, suggeriamo di aspettare perché dopo i primi titoli di coda appare l’ultima scena, molto suggestiva.