El Royale è un hotel sul confine tra la California e il Nevada, con un lunga linea rossa che divide a metà le due aree dell’albergo. Un palcoscenico che Drew Goddard utilizza per raccontare la storia di sette sconosciuti, ognuno con una ragione diversa per passare una notte lì. “Quello che mi piace del cinema è il suo potere di creare mondi e volevo mettere in scena un luogo che riflettesse il carattere di tutti i personaggi – racconta il regista – Ma raccontare in unico posto sette protagonisti durante una sola notte è stata una sfida”.
Tutto in questo film sembra scisso in due: “La sceneggiatura gioca sui contrasti e sulle dualità e anche l’albergo è così, diviso tra due stati dove questa divisione è visibile in tutti gli aspetti del design” – spiega Drew Goddard. La linea di demarcazione che divide le due regioni degli Stati Uniti non è un confine soltanto fisico, ma qualcosa che sembra separare dei limiti ben più labili: il bene e il male, segreti e verità, ma anche apparenza e realtà. Gli stessi personaggi che popolano il racconto mostrano la stessa dualità: un prete, una donna, un venditore di aspirapolvere e una donna vestita da hippie, poi una ragazza rapita e il capo di una setta; insieme formano un interessante puzzle di personalità complesse e mutevoli, dove ognuno indossa una maschera e una ragione per raggiungere l’albergo di El Royale. Ma sarà quest’ultimo, il protagonista taciuto del film (l’ottavo sconosciuto), a raccontare il segreto più grande di tutti.
La trama di 7 Sconosciuti a El Royale è scritta con un’attenzione e una cura per il dettaglio maniacale, attenta a spiegare quanto più possibile gli avvenimenti del film. Goddard non mette in scena un solo un protagonista, ma decide di portare sullo schermo tutti e sette gli sconosciuti allo stesso livello e svelare la storia attraverso il punto di vista di ognuno. Una scelta rischiosa, cui il regista aggiunge un ritmo da noir classico, più simile al cinema degli anni passati che ad oggi, dosando l’azione e i colpi di scena con dovizia, alimentando continuamente l’attenzione dello spettatore.
Una strada già battuta da Tarantino nel suo ultimo lungometraggio, The Hateful Eight, da cui questo film sembra aver preso più di una ispirazione, ma Drew Goddard aggiunge, in chiave noir, un palcoscenico più ampio, raccontando i flashback dei suoi protagonisti e spiegando fino in fondo le ragioni per cui questi sette sconosciuti scelgono di mentire, uccidere, sbagliare, ma anche redimersi e sperare in una nuova opportunità. “Viviamo in tempi bui – racconta il regista – ma credo che ci siano sempre stati nella nostra storia, per questo penso che ci sia sempre una via per la redenzione e immagino che sia soprattutto di questo che parli il film”.
La cura per il dialogo e la messa in scena che il regista antepone all’azione dona al film un’atmosfera sospesa, quasi irreale – creando un micro universo di segreti e violenza da cui sembra impossibile uscire (che aggiungono al lungometraggio una durata forse eccessiva per le reali intenzioni del film). Sembra quasi che Goddard non abbia paura di stancare lo spettatore, convinto probabilmente che con un cast stellare, a cui aggiunge una parentesi fisica di Chris Hemsworth, non abbia bisogno di contenere troppo il minutaggio del film. Ma una regia così asciutta e controllata, che si diverte fin troppo a dialogare solo con se stessa, a dimostrare quanto sia efficiente nel coniugare la forma con la sostanza, scorda forse che non è sempre tutto oro quello che luccica.