Non è difficile cogliere al volo i testi e i sotto testi che si intrecciano con fermezza in Smallfoot: il mio amico delle nevi. Pensato sullo schema di quella impostazione narrativa animata fortemente sistematizzata dalla Pixar e formato, infatti, da una doppia faccia comunicativa (una dedicata ai più piccoli e un’altra invece rivolta agli adulti), il film diretto da Karey Kirkpatrick non nasconde la sua duplice natura e, nella cornice di una piacevole atmosfera per famiglie, dispiega fin dall’inizio una grammatica visiva articolata, una direzionalità narrativa stratificata e una volontà didattica ben precisa. Le coordinate formali del film sono perfette per un pubblico di giovanissimi e quelle tematiche funzionano anche per gli spettatori adulti: il cuore contenutistico bollente sotto tutta la neve è infatti costituito dallo scontro antropologico-sociale tra la pretesa della sicurezza e il desiderio di libertà dell’individuo occidentale.
Il veicolo narrativo di questo tema complesso è una storia di formazione canonica – perché racconta la crescita esistenziale del gentile yeti Migo – caratterizzata però da un ribaltamento di prospettiva (marchio di fabbrica dei produttori Ficarra e Requa) molto intelligente, in virtù del quale i protagonisti non sono gli esseri umani, bensì le leggendarie creature dai piedi grandi e in particolare un loro sparuto gruppo di giovani ribelli, deciso a voler esplorare il mondo sconosciuto e forse ostile di “quegli esseri coi piedi piccoli” con paura, coraggio e dissenso da parte della comunità, legata ad ataviche leggi di rigidissimo isolamento.
La prima qualità del film risiede nel riuscito contatto tra l’apparato formale – costituito da una animazione dettagliata – e l’impianto contenutistico – molto centrato su messaggi sociali positivi ed educativi – e nell’esaltazione di questo contatto attraverso l’uso di una creatività che comunica i messaggi proprio attraverso soluzioni visive non solo finalizzate al divertimento: ne è un esempio la brillante gestione delle dimensioni dei personaggi e delle gag prodotte dal linguaggio dei loro corpi, che denota l’attenzione di chi utilizza il mezzo animato in tutta l’estensione delle sue elastiche potenzialità espressive. Peccato che ci siano momenti di involuzione improvvisa, che sbilanciano l’asse qualitativo del film a causa di intuizioni anche comprensibili nell’economia generale ma a tratti azzoppate da un ridicolo involontario molto marcato, come nel caso di un’importante scena danneggiata da una scelta musicale completamente fuori luogo.
Il secondo pregio del film è quello di approfondire fino in fondo i temi su cui basa la sua narrazione: l’attrito tra la bellezza delle novità e la solidità della tradizione, il bisogno di un giovane orizzonte dopo quello lasciato in eredità dalle vecchie generazioni e la forza di un potere oscurantista pronto a difendere i suoi confini dall’infiltrazione di verità di difficile comprensione; il valore dell’integrità, la necessità di demolire i propri pregiudizi e le pericolose derive di una società ipnotizzata dal desiderio della fama. Il film somma le differenti parti tematiche dentro a un pugno di immagini metaforiche misurate e potenti, capaci di contenere l’eterogeneità delle riflessioni e di cristallizzarla grazie alla forza semplice e diretta propria dei più sinceri prodotti audiovisivi.
Smallfoot: il mio amico delle nevi di Karey Kirkpatrick e Jason Reisig guadagna così dal controllo complessivo dei suoi elementi un grande respiro, che si sviluppa dal confronto con tematiche importanti, si forma concretamente attraverso la plasticità dell’immagine e si completa nella condivisione delle idee con individui ancora in formazione e altri ancora in tempo di imparare qualcosa. È la grandezza dell’animazione: parlare al cuore di tutti attraverso sculture in movimento più o meno semplici; raccontare situazioni all’apparenza poco credibili, ma in realtà fatte per essere accolte e ricordate; piegare la logica delle cose in favore degli occhi di chi guarda: anche scaldando il cuore e la mente attraverso una storia disegnata nel ghiaccio e nel freddo.
Leonardo Strano