Il lato oscuro di Christian Carion: intervista al regista di Mio figlio
Autore di un thriller che unisce cinema di genere e sperimentazione artistica, Christian Carion ci riporta all’essenza primordiale della settimana arte dando modo a Guillaume Canet di cimentarsi in una prova d’attore che non prevedeva alcun appello. Come sia riuscito a conciliare questa poetica con la commerciabilità del film lo abbiamo chiesto direttamente a lui. Ecco cosa ci ha detto
Mio figlio mi pare si possa addirittura definire un film anti retorico per antonomasia. Basterebbe soffermarsi sul modo di affrontare la violenza che è frutto di un ultimo disperato tentativo di salvare il figlioda parte di un padre e mai un’esposizione spettacolare e truculenta.
Volevo vedere come un uomo che ha ricevuto un’educazione “buona”, coerente con i principi della normale convivenza (rispetto per gli altri, non violenza ecc …), beh, come quest’uomo possa farsi travolgere dal suo lato oscuro, affrontando un situazione speciale. Penso che lo spettatore capisca che anche lui è come il personaggio: fragile, fallibile. Chi ha visto il film mi ha detto di sentirsi come lui e soprattutto di essere rimasto sconvolto dall’avere aderito alle scelte – violente – del personaggio,pensandosi fino ad allora lontano dalla possibilità di reagire in un modo cosi ferino. In realtà, penso che siamo tutti un po’ come il protagonista. Lui d’altronde non vuole essere certo uno come Gandhi. Poi, per quanto mi riguarda, non mi interessa giudicare ma solo guardare e mostrare.
Sappiamo, solo dopo averlo letto nelle note di presentazione, che la verosimiglianza e la naturalezza del film derivano molto dalla decisione di volerlo girare mettendo Guillaume Canet nella condizione di non essere preparato a ciò che lo aspettava e di aver filmato quasi in tempo reale, senza avere una vera e propria sceneggiatura. Da questo punto di vista, mi pare che Mio figlio dimostri, come anche a livello di cinema mainstream, che si possa girare in maniera sperimentale e coraggiosa. Penso a un film come Nick of Time di John Badham, che racconta più o meno la stessa storia utilizzando tutti gli artifici tipici del cinema hollywoodiano.
Adoro Nick of Time! (di John Badham, conJohnny Depp), è un film hollywoodiano riuscito. Io, invece, dopo tre film storici, ovviamente pesanti da girare, sentivo il bisogno di ritornare a qualcosa di libero e leggero. Essere liberi per me significa non avere ingombri, alleggerirsi, forse anche elevarsi. Girare questo film in qualche modo è stato come smontare il motore del cinema. Dopo averlo fatto capiamo meglio quello che conta.
Mio figlio è senza dubbio un thriller ad alta tensione. Considerando che per un film del genere si tratta della cosa più difficile da realizzare, volevo chiederti su quali meccanismi hai lavorato per raggiungerlo in modo così efficace.
Ho focalizzato tutto sulla tensione di Guillaume Canet che non conosce cosa sta per succedergli e quindi ha paura. Non recita, è! La sua angoscia, la sua verità coinvolge il pubblico, credo. Il resto è una gigantesca manipolazione attorno all’attore per portarlo al punto massimo della tensione. Il cinema è questo: manipolare. La domanda poi è di sapere perché farlo.
Dal punto di vista estetico questo approccio fa si che la resa appaia essenziale, scarnificata da ogni sovrastruttura e tutto tesa verso un resoconto quanto più veritiero possibile. Ti posso chiedere qual è stato il criterio in base al quale avete deciso di improntare le immagini del film?
Mi sono rifiutato di avere un fotografo, se questa è la domanda. Le foto sono i fotogrammi del film. Sul set: niente sceneggiatura, niente battito di mani, niente acconciatura da trucco, niente ripetizioni. L’imperativo era tornare all’essenza del cinema: una storia, attori, una macchina da presa (e un microfono). L’ho adorato.
Alla stregua di L’Affido di Xavier Legrand anche Mio figlio lavora su due livelli: da una parte c’è il racconto di genere, e cioè la componente thriller data dal tentativo del padre di ritrovare il figlio rapito, dall’altra la rappresentazione della condizione umana e, in particolare, quella di padre.
Molto giusto. Il film funziona su due livelli. È un thriller in cui un uomo diventa papà. E la cosa più importante nei miei film è la condizione umana. Con Mio figliovolevo avvicinarmi a un genere che amo: il polar. I generi (western, commedia, polar etc.) sono il DNA del cinema. Devono essere rispettati, rinnovati, lavorati. Spero di farne un altro.
La scelta di non rivelare alcuni particolari relativi, per esempio, al mestiere del protagonista, così come all’organizzazione che sta dietro al rapimento del bambino, era data dal fatto di rispettare la fenomenologia della storia o ci sono altri motivi?
All’inizio c’era una sceneggiatura che ho scritto con LaureIrrmann). È essenziale: si domanda dove stiamo andando! Ho provato per due settimane con tutti gli attori per perfezionare la manipolazione attorno a Guillaume, che è il protagonista assoluto del film. Durante le riprese, alcune volte gli parlavo per non lasciarlo solo (perduto), ma soprattutto lo lasciavo agire come voleva davanti alla mia macchina da presa. Nella scena di tortura, con la fiamma succede qualcosa di imprevisto. Guillaume diventa pazzo in un certo modo e l’attore che subisce la violenza perde il controllo, non riuscendo a dire esattamente quello che c’è scritto nel copione. Per esempio non arriva a spiegare le ragioni del rapimento. Alla fine della ripresa, sapevo di non aver fornito tutte le informazioni che mi ero prefissato, ma sono rimasto fedele al principio che mi ero dato, e cioèdi fare una sola ripresa. Se avessi fatto diversamente avrei perso la sorpresa e la spontaneità che si legge sulla faccia di Guillaume, il quale ripetendo la scena avrebbe saputo ciò che lo aspettava. Oggi trovo che questa sia stata la scelta migliore.
Un altro aspetto decisivo del tuo film è il modo in cui ritrai il protagonista. Julian non è un giustiziere alla Charles Bronson de Il giustiziere della notte ma, piuttosto, un figura sfaccettata, non esente da paura e angoscia nei confronti di ciò che gli sta accadendo. In questo senso sembra più vicino al personaggio di Cane di paglia, costretto a tirare fuori la sua parte oscura per cause di forza maggiore.
Julien è un uomo roso dalla colpa di non aver avuto cura di suo figlio. Soffre terribilmente. Anche per questo rinuncerà ai suoi valori umanistici, trasformandosi in un lupo, in un animale, disposto a tutto pur di trovare suo figlio. Capisco la sua traiettoria, ma è molto importante che alla fine riferisca ciò che ha fatto alla giustizia. Non è un vigilante venuto in città per regolare i conti con qualcuno.
Per finire volevo parlare un po’ di Guillaume Canet. La sua interpretazione è assolutamente credibile perché di fronte alla macchina da presa appare nudo, senza schermi. In più mi sembra un attore naturalmente abituato (penso anche a No Fiction appena visto a Venezia) a trovare il personaggio lavorando di sottrazione. È cosi?
Ti posso dire che non avrei mai potuto imbarcarmi in questa avventura senza conoscere l’attore. Questo è il mio terzo film con Guillaume, per cui lo conosco molto bene. Sapevo che avrebbe accettato di abbandonarsi e che avrebbe avuto fiducia in me, per cui tanto di cappello a lui!: non si nasconde dietro le parole scritte, non compone nulla. Si lascia sommergere dalla storia e dalle sue emozioni, senza barare. Si, è una sottrazione, ma paradossalmente il risultato moltiplica ciò che avevamo all’inizio del processo.