Come si inserisce in questo momento della vostra carriera il progetto di Blu, considerato che si tratta di un cortometraggio?
Massimo D’Anolfi. Tra l’altro è il nostro primo cortometraggio e quindi in un certo senso si tratta di un’opera prima (ride). Blu è un intermezzo tra Spira Mirabilis e Guerra e pace, il film che inizieremo a girare tra poco. Rispetto all’ultima scena di Spira Mirabilis, ambientata nel deserto notturno del Sud Dakota, siamo ripartiti da una notte italiana per immergerci nel sottosuolo della città di Milano. Qui si tratta di un’oscurità particolare perché, come hai avuto modo di vedere, l’ambiente è illuminato da una miriade di faretti. Ciononostante c’è una dimensione notturna che ci interessava attraversare e che viene spezzata solo nel momento in cui si rompe l’ultima paratia e si arriva al crepuscolo.
In effetti, davvero il vostro è un cinema ipnotico, fatto di epifanie! A proposito di “venire alla luce”, questo concetto si sposa bene con l’essenza del vostro lavoro. Penso, per esempio, alle similitudini tra l’immagine degli operai che emergono dal buio della notte per rivedere il barlume del sole e la particolarità delle vostre narrazioni in cui la contestualizzazione di ambiente e personaggi si rivela solo al termine di un lungo depistaggio narrativo nel quale lo spettatore è chiamato a rimettere insieme i vari tasselli.
Martina Parenti. Questo però è un processo che fa il pubblico. Per quanto ci riguarda questo è il cinema che ci piace, quello in cui all’inizio hai solo dei riferimenti e dove il quadro si ricompone un poco alla volta.
Intendevo proprio sottolineare come questa volontà da parte vostra si trasformi in una costruzione visiva e narrativa fuori dalla norma. In questo senso voi fate un lavoro sullo sguardo dello spettatore costringendolo a riconsiderare gesti che l’abitudine non gli permette più di vedere.
MD. La nostra ricerca va proprio in questa direzione. L’obiettivo è quello di spingere chi osserva a riguardare le cose con occhi nuovi e per farlo c’è bisogno da parte nostra di riuscire a trarre dal fotogramma e dall’immagine la forza, il senso e l’anima in essi contenuti. Bu è un film dedicato a dei lavoratori invisibili che fanno un lavoro molto faticoso e tutto in immersione. Un’attività ai più sconosciuta fatta di gesti, di forte meccanizzazione ma anche di grande artigianalità, perché queste persone sono ancora capaci di sistemare gli oggetti. Se qualcosa si rompe sono in grado di ripararla e nel farlo compiono un gesto che oramai è in via d’estinzione.
Non a caso i protagonisti dei vostri film sono homini faber: alla stregua dei precedenti lavori anche in Blu il rapporto tra uomo e realtà si compie attraverso il lavoro. I personaggi delle vostre storie sono sempre intenti a produrre e a fare.
MP. Si tratta di un tarlo che abbiamo in testa e che ci spinge ad approfondire i processi del lavoro ma, come diceva Massimo, questo fa parte delle domande che ti poni di fronte alle situazioni in cui incappi. È chiaro che se uno è il tipo di persona che “usa” la città, i cantieri altro non sono che ostacoli e scomodità. Ciò non toglie che ci si possa domandare cosa c’è dietro questo lavoro e come si svolga il processo delle attività necessarie a realizzare l’opera. Così facendo si scoprirà che a compierla sono sempre dei piccoli eroi del quotidiano uniti dalla volontà di creare qualcosa di grande che normalmente corrisponde al bene comune. Questa cosa era presente sia in La fabbrica del Duomo che in Blu.
A stupire è il rapporto tra l’anonimato di questi uomini e la loro indispensabilità all’interno dell’ingranaggio. Anelli piccoli e infinitesimi questo persone sono dotate di una tecnica e di una manodopera sopraffina che in certi casi raggiunge perfezione sovra umana.
MD. È un continuo rapporto tra l’uomo e la macchina nel quale a volte è la seconda a utilizzare il primo, altre, il contrario. A noi però piace la dimensione artigianale del fare, che rivendichiamo nel nostro modo di accostarci al cinema. Non a caso ci consideriamo filmaker nel vero senso del termine, occupandoci del montaggio, della fotografia e del suono. Il processo creativo del film è interamente nelle nostre mani.
È però vero che questa cosiddetta artigianalità convive con un look in molti casi avveniristico. E qui veniamo alla forma del film. In Blu come negli altri a farla da padrone sono i piani sequenza a camera fissa.
Si, però ci sono dei falsi movimenti che sono dati dall’azione delle macchine a lavoro. In Blu per esempio questa sensazione è data dal procedere del trenino.
Infatti, la domanda successiva era quella relativa all’effetto ipnotico prodotto dalla combinazione tra la staticità dell’inquadratura, il perpetuo movimento all’interno della stessa e la costante presenza di suoni e rumori. Partendo dal posizionamento della macchina da presa che problemi vi ponete rispetto al punto in cui collocarla?
MD. Accade tutto in maniera naturale e istintiva. Nel caso di Blu la scelta doveva tenere conto dei limiti derivati dal dover girare all’interno della TBM, che è un macchinario di circa 100 mt, i cui spazi percorribili sono molto ristretti e dove al massimo riesce a passare una persona. All’interno della struttura ci sono zone più aperte dove si può stare quando il macchinario fa un certo tipo di lavorazione e dalle quali invece ti devi allontanare nel momento in cui se fa un’altra. Questo solo per dirti che i limiti della realtà possono diventare una grandissima opportunità laddove, adattandosi a filmare in posizioni impossibili, hai la possibilità di guardare le cose in maniera nuova e mai vista.
MP. Io credo che sia un punto macchina istintivo, ma sempre umilmente al servizio del lavoro che sta accadendo in quel momento. Dunque non è mai estetizzante.
Parlando, invece, dell’effetto ipnotico prodotto dal movimento e dal suono all’interno dell’inquadratura: è una cosa che cercate consapevolmente?
MD, MP. Si è un immersione. A noi piace accompagnare le persone all’interno del film solo per un tratto, poi preferiamo che si perdano e facciano il loro viaggio. Così, per me, l’immagine fondamentale di Blu è la ripresa dall’alto del trenino che si accinge a entrare nel sottosuolo: quell’attimo segna lo spartiacque tra il dentro e il fuori. Tutto quello che c’è stato prima di quel momento viene di colpo escluso. Al primato del fattore umano subentra quello rappresentato dal binomio uomo macchina. Si entra nel mostro e in questa notte luminosissima dove inizia un altro mondo. Ovviamente per immergersi c’è bisogno di un tempo lungo e duraturo.
Come abbiamo accennato i suoni sono un elemento importante del vostro dispositivo, per cui vi chiedo come avete lavorato sul sound design.
MD. Partiamo da un suono in presa diretta, necessario a capire dove siamo e poi, insieme al nostro fidato collaboratore che è Massimo Mariani, procediamo all’espansione dei suoni realistici. Questi ultimi sono il punto di partenza dopo il quale è possibile affiancarne altri che non lo sono ma che in qualche modo ne ricordano il sentimento. La necessità di espanderli è data dal bisogno di eliminare dalla registrazione audio le infernali distorsioni presenti in loco. Tieni conto che qui, alla pari del film precedente, i lavoranti non potevano stare senza cuffie per proteggersi dai rumori, quindi pensa cosa succederebbe in sala se li riproponessimo cosi come sono.
Quindi c’è tutto un lavoro di pulizia.
MP. Si e anche d’astrazione. A volte ci sono dei suoni iperrealistici, come quello prodotto dal passaggio del treno sulle rotaie, che diventano una vera e propria musica.
Le vostre opere sono a dir poco stratificate: volevo chiedervi come si scrive un film come il vostro?
MP. I nostri film si scrivono per prendere finanziamenti, cioè sono dei soggetti che poi diventano dei trattamenti più funzionali a un discorso pratico che creativo. Certo è che vivendo insieme una volta messo sulla carta il film continuiamo a raccontarcelo per via orale. Non c’è dunque bisogno creativamente di scriverlo.
MD. Scriviamo della parole chiave e poi le sviluppiamo parlandone. Argomenti di questo flusso non sono solo lo sviluppo narrativo e visuale del film ma anche le sue fragilità.
Un’ultima cosa: in media quanto ci mettete per realizzare un film ?
Dai due anni ai due anni e mezzo. Blu per esempio è stato più breve come realizzazione rispetto alla richiesta di permessi. Ottenerli è già stato un processo di lavoro perché richiederli ci ha portato a fare un corso sulla sicurezza del lavoro, a frequentare i luoghi del lavoro, a conoscere le persone così come l’intero progetto. Ora per noi la TBM è una cosa che ora conosciamo in tutte le sue componenti e funzionalità.