Crime+Punishment di Stephen Maing ribalta il significato del romanzo di Fëdor Dostoevskij Delitto e castigo, dove il protagonista, studente a San Pietroburgo, compie un duplice omicidio e poi, dopo tormenti morali e psicologici, accetta la “pena” da scontare in Siberia.
Nel documentario, presentato in anteprima al 4° Festival Internazionale Visioni dal Mondo, la vicenda passa dalla Russia del XIX secolo alla New York dei giorni nostri, sotto l’amministrazione del sindaco italoamericano Bill de Blasio: viene raccontata, in presa diretta nel suo svolgersi, la denuncia di dodici poliziotti dei distretti del Dipartimento di Polizia dell’imposizione delle quote di arresti. Questo comporta – anche se ufficialmente l’amministrazione comunale ha dichiarato che la procedura non esiste – che i poliziotti di New York devono effettuare un determinato numero di arresti, multe, azioni giudiziarie mensilmente per ottenere valutazioni positive che gli permettono di mantenere il lavoro e fare carriera. Tutto ciò ha conseguenze nefaste con arresti arbitrari, violenze gratuite, in cui i più colpiti sono proprio le minoranze etniche, in particolare afroamericani e ispanici dei quartieri più poveri della città, compiuti per la maggior parte da agenti appartenenti alla stessa etnia.
Crime+Punishment segue le vicende pubbliche e private di questi dodici poliziotti che si rifiutano di applicare le quote, la loro denuncia pubblica, il tentativo di una class action – che vedremo non andare a buon fine – e della persecuzione e del mobbing che subiscono dai loro superiori. In parallelo alla storia collettiva dei poliziotti ribelli, il regista americano segue il lungo percorso giudiziario di un ragazzo minorenne che ha passato dodici mesi nel carcere di Rikers vittima delle quote: arrestato arbitrariamente una notte con l’accusa di tentato omicidio nei confronti di un coetaneo pur non essendo nemmeno sul luogo del delitto.
Ecco allora che il delitto e castigo da morale e sociale si ribalta in un delitto più castigo applicati esclusivamente per motivi economici: gli arresti, le procedure giudiziarie, le cauzioni, le tasse da pagare al tribunale, la parcella degli avvocati e della procura creano un flusso di denaro che in qualche modo entra anche nelle casse comunali. La polizia non è lì a proteggere e difendere l’incolumità dei cittadini e della proprietà privata e pubblica, ma agisce come strumento di oppressione, per racimolare denaro. Quello che mostra Crime+Punishment in modo profondo è un sistema che si regge sulla criminalità, sul suo sviluppo e controllo, e quando essa non c’è viene creata appositamente. La lotta per la diminuzione dei reati è meramente demagogica, in quanto in mancanza di essi (e del giro di affari a essi connesso) si verificherebbe un deficit delle casse dell’amministrazione comunale. Ovviamente, i quartieri poveri diventano le zone di caccia per rimpinguare il flusso di denaro, mentre la classe wasp e Manhattan ne sono solo sfiorati, dove vivono i cittadini ricchi e agiati.
Crime+ Punishment dimostra ancora una volta come negli Usa ciò che fa la differenza è il denaro e il suo possesso: i ricchi hanno tutto e possono tutto, i poveri sono alla mercé del potere. Un’altra metonimia che fa il paio con la storia vissuta in The Guardians di Billie Mintz, con i rapimenti legalizzati in Nevada a scapito degli anziani per derubarli dei propri averi. Stephen Maing mette in scena una città completamente diversa da quella mostrata in tanta fiction televisiva e cinematografica, ribaltandone i luoghi comuni. Così le aule di giustizia sembrano degli affollati uffici dove le persone (gli accusati) sono pratiche numerate, gli avvocati e i giudici dei passacarte che applicano la legge in un senso basso e amministrativo, dove la giustizia si riduce a una mera prassi amministrativa, non ottemperando all’applicazione di valori etici e morali per la tutela della società. I poliziotti sono impiegati, operai che devono raggiungere le quote, fatte di arresti invece che di pezzi prodotti, pasti preparati, pratiche evase. La città non è pervasa dalle mille luci e dalle correnti culturali e produttive, dove tutti hanno una possibilità di affermarsi, ma è oppressa da un plumbeo grigiore di quotidianità per poter consumare un pasto caldo e le luci sono fioche e lontane in notti di un buio profondo.
Prodotto da Laura Poitras, l’autrice di vincitrice del premio Oscar al miglior documentario per Citizenfour, riguardante Edward Snowden e lo scandalo spionistico della NSA, Crime+Punishment ha il medesimo tono e il giovane Stephen Maing applica in modo coerente la lezione e lo stile della sua collega più titolata. Maing costruisce il documentario dandogli un respiro da thriller, avendo tra le fonti di ispirazioni Serpico – personaggio e film – basandosi non solo sul pedinamento dei dodici poliziotti, ma utilizzando cineprese nascoste negli orologi, seguendo le vittime nei tribunali e nelle carceri, entrando nelle case (povere) dei poliziotti, mostrandone le “pene” che devono sopportare per non aver inventato “delitti”, comminando “castighi” a innocenti.
Ma il crime plus punishment ha un senso più ampio in cui un’intera collettività, interi gruppi sociali vivono quotidianamente un castigo senza delitto. Un’opera che ha un finale aperto, che continua al di là dello schermo e delle immagini, e che lascia storditi che tutto ciò accada sotto un’amministrazione di un sindaco progressista e democratico (oltretutto de Blasio è sposato con un’afroamericana, poetessa e leader dei diritti LGBT, con due figli adolescenti che somigliano in tutto e per tutto ai loro coetanei oggetto di persecuzione, con l’unica differenza che loro fanno parte di quel censo che detiene la ricchezza e la sua produzione).
Crime+Punishment è un’opera che squarcia il velo della realtà, riprendendola con un occhio spietato e lucido, senza sconti per nessuno (né per i protagonisti, né per gli spettatori). Vincitore di molti riconoscimenti in diversi festival (tra cui il premio speciale della giuria al Sundance), il film vedrà la luce nelle nostre sale cinematografiche ed è un diritto-dovere non perderlo.