Raramente, negli ultimi anni, a chi scrive è capitato di imbattersi in un film italiano in cui la rigorosità – assai meditata – della forma fosse così meravigliosamente funzionale a veicolare la profonda eticità del contenuto. L’ultimo film di Costanza Quatriglio, Sembra mio figlio, è un poema epico in cui è messa in scena l’epopea di chi, vittima di una persecuzione centenaria, dovuta alla differenza di etnia, ha dovuto abbandonare la propria terra, cercando rifugio altrove. Si tratta della popolazione Hazara – una minoranza buddista e sciita – che, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, è stata costretta a lasciare l’Afghanistan, dando corpo a una diaspora su cui l’Occidente ha chiuso gli occhi, ritirandosi in un colpevole silenzio.
La potenza della narrazione di Quatriglio trova fondamento nel respiro universale che la attraversa, laddove il faticoso percorso intrapreso dal protagonista, Ismail (interpretato da un sommesso ed efficacissimo Basir Ahang, giornalista e poeta residente da anni nel nostro paese) diviene la potente metafora del processo di soggettivazione che ciascuno di noi compie durante il corso della propria vita. La necessità di ricongiungersi con la madre, da cui – assieme al fratello Hassan (Dawood Yousefi) – si è forzatamente separato quando era ancora un bambino, costituisce un inevitabile passaggio in cui è in gioco la possibilità di riconoscersi in quanto individuo (notoriamente “il volto della madre” è ciò in cui il figlio si specchia per diventare ciò che è).
Se la storia in sé è già dotata di notevole potenza, ad aggiungere un incalcolabile valore all’insieme è la straordinaria elaborazione estetica della regista, che ha saputo tradurre magnificamente in immagini il divenire di Ismail durante il suo tragitto. Nella prima parte del film, sullo schermo sfilano piani stretti sui volti degli attori, perché l’intento era proprio quello di lasciare fuori campo lo sfondo in cui si muovono. I vari personaggi sono, per dirla parafrasando il gergo heideggeriano di Essere e Tempo, “soggetti senza mondo”, drammaticamente sradicati, impossibilitati a divenire se stessi, vittime di un’inusitata violenza. Dopo che Ismail decide di muoversi alla ricerca della madre, raggiungendo i luoghi natii, i campi cominciano ad allargarsi, il paesaggio penetra nelle inquadrature, dando corpo all’ordine simbolico di cui il protagonista è stato colpevolmente privato.
E poi, altro grande merito di Costanza Quatriglio è quello di aver trattato in modo davvero efficace (e assai coraggioso) la rappresentazione del tempo. In Sembra mio figlio non è presente un vero e proprio concatenamento cronologico degli eventi (o, comunque, non è ciò su cui la regista ha puntato), piuttosto ciò cui si assiste – e in cui si sprofonda – è una durata emotiva, quella di Ismail, colto in un momento di mutazione interiore decisivo, che solo certe sospensioni e dilatazioni potevano adeguatamente restituire. Il film, infatti, procede per ellissi, perché ciò che davvero contava era mettere lo spettatore in una profonda connessione empatica con il protagonista del viaggio. E in ciò la regista è riuscita perfettamente.
Il finale aperto conferma la volontà di coinvolgere chi guarda, per renderlo ancora più partecipe, convocandolo a chiudere esso stesso la vicenda, nell’intento di farlo diventare più sensibile e responsabile rispetto a una storia dolorosa che non consente di trincerarsi dietro il solito muro di indifferenza.
Sembra mio figlio è un film, potente, intenso, commovente e necessario. Un’opera magnifica che conferma il grande talento di Costanza Quatriglio, la quale, insieme ad altri registi delle nuove generazioni, potrebbe davvero dare adito a una rifioritura del tanto vituperato cinema italiano. Per questo si consiglia di non mancarlo: si perderebbe l’occasione di fare esperienza di una storia importante – che ci riguarda – e di un cinema dietro cui c’è un’idea forte e giusta.