Decisamente insolito il documentario presentato il secondo giorno di Visioni dal mondo, per il concorso italiano: I vetri tremano di Alessandro Focareta. Inaspettatamente diverso, perché parla, sì, di un viaggio a Cuba, ma aggiungendo alle immagini dell’altra parte del mondo immagini, ricordi e riflessioni su se stesso, soprattutto se stesso bambino. Il regista lo fa apparentemente senza incertezze, anche se è facile capire quanto lavoro personale ci sia stato prima, più complesso e profondo di quello rappresentato. Lo fa lontano dalla sua quotidianità, e non importa se la giusta distanza sia quasi di diecimila chilometri. D’altra parte, il film comincia con questa citazione di Bolano: “Esiliarsi non significa scomparire, bensì rimpicciolirsi; arrivare ad essere lentamente o velocemente sempre più piccoli fino a raggiungere la nostra vera altezza, l’altezza dell’essere“.
I vetri tremano del titolo è la frase che il padre disse al regista quando aveva tre anni, durante il terremoto dell’Irpinia. Con quelli e con altri vetri interiori che forse tremano ancora adesso, ma di sicuro lo hanno fatto forte nei due anni di lavorazione del film, Focareta ha voluto fare i conti, scegliendo di mettersi a nudo davanti al pubblico, dando voce anche a vissuti di fragilità, come l’allontanamento dai genitori per andare lontano, i riti e le piccole manie prima di volare. Commovente l’immagine di lui (rievocata) che dopo i controlli all’aeroporto, si gira un’ultima volta per vedere i genitori allontanarsi. Incipit ed esordio sono la parte più bella, per come ci introducono in una dimensione privata, un’intimità che mai ci aspetteremmo. Focareta indugia a lungo sui dettagli di una foto di lui piccolo insieme alla madre: prima la visione d’insieme, e poi piccole parti, frammenti di realtà sulle quali ama sostare, sulle quali pensiamo abbia bisogno di sostare. Da Cuba (il film è di due anni fa) Alessandro Focareta invia messaggi alla madre che vive in Italia ed è in chemioterapia: testi affettuosi, che un uomo di solito non ama rendere così pubblici.
E Cuba è una Cuba tutta sua. Molto diversa dal cliché di case e automobili colorate, dalla sonorità e dal ritmo cui siamo abituati. Le persone sembrano figure sospese: il pescatore con un gabbiamo semi-addomesticato (sono molti gli uccelli in questo film, da entrambe le parti del mondo), l’uomo sul muretto che dialoga senza fretta con il regista stesso, i bambini che giocano insieme a lui mentre li riprende a testa in giù. L’isola che ha la forma di una foglia essiccata di tabacco è raccontata con gli occhi di chi sta vivendo un momento esistenziale importante, in sintonia con la trasformazione del luogo durante la presidenza americana di Obama. Si alternano scene di questa nuova realtà (ahinoi, bloccata dall’elezione di Trump!) a quelle italiane, contadine, di decenni addietro, non vissute dal regista, e quindi rese con documenti visivi non suoi.
Insomma, presenti e passati collettivi, presente e passato personale per cogliere le affinità, e le continuità che fanno tanto bene al cuore. Radici e ali che servono per vivere serenamente e che, in viaggio, lontani dalle proprie certezze, sono messe a dura prova. Certo il lavoro è ambizioso, un film-saggio che non è un genere molto amato in Italia, per cui il regista ringrazia il direttore artistico Fabrizio Grosoli per il suo inserimento al Festival.