Il canto del mare di Claudia Neubern presentato nel concorso italiano del 4° Festival Internazionale del Documentario Visioni dal Mondo è una poetica rappresentazione di due solitudini sufficienti a sé.
Il documentario è un genere un po’ particolare da definire. Si parla di “cinema del reale” nel momento in cui si vuole registrare in qualche modo la realtà. Molti autori e in molte pellicole, la macchina da presa è posizionata in modo oggettivo a riprendere persone comuni ed eventi quotidiani oppure in situazioni straordinarie. Ma, nella realtà, nel momento stesso che si mette in quadro ciò che si vere, si compie un’operazione in cui il regista delimita a tutti gli effetti lo sguardo e quindi compie una scelta “soggetiva” e la ripresa del reale non è più tale, ma diventa in quel momento una parte. Poi, se interviene il montaggio della inquadrature e delle sequenze, allora il cosidetto “reale” diventa elemento stilistico per una narrazione del mondo attraverso un linguaggio che trascende la realtà e la trasforma in finzione. Siamo di fronte a ibridazioni in cui la ripresa eventi reali sono ibridati con tecniche visive differenti: fotografie, animazioni, servizi giornalistici, effetti ottici, sonori, intervento di voci off e di attori professionisti che interpretano un ruolo all’interno del documetario in quanto film di genere.
Il canto del mare non fa eccezione e nel riprendere la vita di un anziano pescatore che vive nella regione francese della Camargue e il suo incontro con una giovane cantante d’opera in crisi effettua un’operazione di “finzione” utilizzando immagini ripresi dalla realtà. Ma già in questo cortometraggio la delimitazione dell sguardo è ben precisa e si alterna tra primi piani e medi sia del pescatore sia della giovane, in interni, durante i pasti, o in esterni, mentre sono sulla barca a raccogliere il pesce dalla rete o mentre passeggiano tra i radi boschi. A questa serie di sequenze, la regista aggiunge poi riprese in campi lunghi, ariose, ampie, delle spiagge, dei sentieri, delle coste, delle insenature, quasi come pagine illustrative di un diario intimo della protagonista, la giovane cantante, che si è andata a rifugiare in questo territorio isolato, a tutti gli effetti un finis terrae, dopo un’audizione andata male.
La domanda che assilla la protagonista è: sono una buona cantante oppure una vera artista? Ed è un po’ la domanda principe che si pone qualsiasi autore in ogni campo del genio umano: dalla scultura alla scrittura, dalla pittura al cinema, dal teatro alla danza. Il canto del mare non dà una risposta al dilemma della protagonista, ma cerca di rappresentare la sua “artisticità” attraverso una ricerca poetica della composizione dell’immagine da parte della regista Claudia Neubern che cerca invece di far sentire una voce autoriale.
Del resto, il vecchio pescatore ha un afflato evangelico e la cantante quasi panteistico con il femminino che appare all’improvviso sulla strade sterrate vicino al mare proveniente da un dove non conosciuto. E del resto, nel finale, sbarca sulla terraferma, mostrandocela attraversare una barriera, una frontiera, un soglia attraversata che porta solo in una direzione, verso un mondo reale e lasciandosi alle spalle un sogno cantato, una manciata di ricordi, momenti tanto eterei quanto profondi.
Il canto del mare dimostra come il documentario possa essere molto duttile come genere cinematografico per chi ha voglia di sperimentare e cercare dentro se stessi, come fa la Neubern, una propria voce che permetta di modellare la realtà che ci circonda.