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Festival Visioni dal mondo. Il primo pomeriggio guarda a un passato mitico e a un presente indecifrabile

Il Festival Visioni dal Mondo inizia con un omaggio alla Sardegna, presentando due documentari: The wash, del regista sardo Tomaso Mannoni, e Sa Femina Accabadora del torinese Fabrizio Galatea

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Il Festival Visioni dal Mondo inizia con un omaggio alla Sardegna, presentando due documentari: The wash, del regista sardo Tomaso Mannoni, e Sa Femina Accabadora del torinese Fabrizio Galatea. E così questa figura di donna torna a farsi protagonista, dopo l’intenso romanzo, e molto conosciuto, di Michela Murgia (2009), dal titolo appunto Accabadora e dopo il film di Enrico Pau (2015) meno conosciuto, che porta lo stesso titolo, ma con l’articolo, L’accabadora. Il film di Pau è tutt’altra storia rispetto a quella della Murgia, ma ne condivide le atmosfere, le ombre, e qualche spunto nella vicenda dei personaggi, solo qualche spunto. Ad ogni modo, romanzo film di narrazione o documentario, quando si parla di lei non si può che evocarla con questo nome così misterioso, che forse deriva dallo spagnolo o forse dalla lingua sarda, ma il significato è lo stesso. Colei che pone fine, che aiuta le persone sofferenti a morire, accompagnandole con pietà e determinazione. Spesso è anche levatrice, donna che, dando la vita, può permettersi poi di toglierla; ultima madre che agisce non certo per crudeltà, ma per risparmiare il dolore all’ammalato e alla famiglia, risollevandoli con la dolce morte. E con compassione.

Così affermano le testimonianze nel lavoro di Galatea; tutte, tranne quella del prete (c’è anche un’antropologa), sembrano convinte che sia esistita davvero questa femina pratica, come veniva chiamata in realtà. Pratica perché sapeva dove, quando e come colpire (i metodi usati, dal bastone, o il martello allo strangolamento non paiono però tanto amorevoli!), ma anche perché saggia, rispettata da tutti e vista con gratitudine.

Era la tzia, la zia, temuta per la sua autorità, ma nello stesso tempo familiare. Nella lettura di Fabrizio Galatea, l’accabadora perde un po’ di drammaticità, anche se il regista non resiste alla tentazione di rappresentarcela come un’ombra furtiva che, infagottata di nero, cammina rasente i muri per entrare silenziosa in un portone, anche se non riesce a liberarla dallo stereotipo a cui la tradizione l’ha condannata. Però, chi ne parla lo fa sempre sottolineando la relazione morte-vita e la dignità di un morire che non si sfinisca troppo nell’agonia. Chi poi ha visto l’accabadora da bambino di lei ricorda una carezza, un gesto di benevolenza, come sono benevole le nenie cantate ai bambini per addormentarli, identiche a quelle per piangere i morti. Musiche sconsolate, tristissime, ma cariche di bene. Paradossalmente, c’è poesia, e tanta, in queste femine che, se esistite, sono comunque al limite del sacro, del leggendario; se inventate, esprimono bisogni di vicinanza, di cura, ancora di più nel momento finale, a condividerne il mistero. E se qualche scena del documentario si sofferma sugli interni spogli e antichi, con musiche che creano tensione tanto da sembrare di vederla arrivare, l’accabadora, in realtà il regista riprende racconti molto pacati e non teme di esprimere chiaramente, e serenamente, il suo parere sull’eutanasia, di ieri e di oggi.

Anche Emiliano Mancuso e Federico Romano, registi di Le cicale, sono riusciti a creare un clima di serenità in momenti esistenziali che non sono affatto tranquilli. Descrivono il lutto provocato dalla perdita della casa per alcune persone anziane, riprese in un condominio di Cinecittà nel 2009 e ritrovate ora. Chissà quante sono le persone in Italia soggette allo sfratto, ma quando vediamo da vicino Mario, Marco, Pino e gli altri, e guardiamo da vicinissimo la loro quotidianità (il tifo per la Roma condiviso con gli amici, l’accudimento del gatto, le polpette consumate in solitudine nel piatto di plastica), siamo inevitabilmente chiamati alla partecipazione. In loro compagnia, e delle loro piccole grandi cose, sessantasei minuti passano in fretta, perché elementi narrativi e descrittivi sono ben armonizzati, a far risaltare la dote di questi romani che da persone si fanno personaggi, con la capacità di resistere a un mondo fatto ingiustamente di basse pensioni e di grandi pretese.

Di ambiente trattano i due documentari brevi del pomeriggio: The wash e Ogni cosa rosa prodotto dalla Civica Scuola di cinema Luchino Visconti. Entrambi, in poco più di un quarto d’ora, denunciano situazioni disperanti. Il primo, le conseguenze delle esercitazioni militari della Nato a Capo Teulada (un’intera famiglia ammalata di tumore dopo aver gestito per decenni la lavanderia che puliva le divise militari); il secondo la fumata rossa di Taranto e le polveri che si depositano ovunque. All’inquinamento che conosciamo (il primo taciuto, il secondo irrisolto), fanno da contrasto riprese marine, sarde e pugliesi, bellissime. In The whash il rumore della lavatrice si fonde con quello delle onde, quasi a cercare un senso o evidenziarne l’assurdità

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