Ed è quasi alla fine del Festival che viene proiettato quello che probabilmente è il più bel film in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, Nuestro Tiempo, ultimo sforzo di Carlos Reygadas, che presenta al Lido un’opera dolorosa e incantevole allo stesso tempo. Innanzitutto ci troviamo davanti a un uomo che ha scelto di proporre un film incentrato sulla coppia e sulle sue dinamiche, all’interno del quale gli elementi che compongono quest’ultima sono lui e la moglie (la bellissima Natalia Lopez), che interpretano i ruoli di Juan e Esther. Questo aspetto rende inevitabilmente il risultato straordinariamente autentico oltre che quanto di più personale possa esserci nel lavoro di un cineasta e di conseguenza un’opera estremamente coraggiosa, nonostante Reygadas abbia dichiarato che il suo film non sia autobiografico e che la scelta di interpretarlo oltre che di dirigerlo sia stata sia per lui che per la moglie secondaria e successiva alla scrittura della sceneggiatura, dovuta al non essere riuscito a trovare degli attori convincenti durante la ricerca del casting. Infine, questa peculiarità favorisce e determina, insieme al soggetto universale tra i più umani e vicini alla vita di qualsiasi spettatore, il massimo livello di identificazione possibile. E se non bastasse, anche i bambini che interpretano i figli di Juan e Esther nel film, sono i figli della coppia anche nella vita.
Oltre a essere un lavoro nel quale la coppia, le sue dinamiche, i suoi fantasmi assumono un ruolo centrale, catalizzando totalmente l’attenzione dello spettatore, Reygadas inserisce, alternandoli e armonizzandoli con il nucleo cardine, tutta una serie di elementi caratterizzanti sia la narrazione che la messa in scena, che il regista padroneggia perfettamente, realizzando pennellate perfette che da una parte stemperano, alleggerendoli senza ridurne l’intensità, i momenti di sofferenza, dall’altra arricchiscono ed esaltano la potenza e la forza del tema principale. Il regista intercala e affianca alle vicissitudini della coppia delle bellissime scene riguardanti il resto della famiglia e in particolare il rapporto con i figli, oltre a delle riprese esterne meravigliose, ognuna delle quali da sola è un quadro di rara bellezza, in cui riprende uno dei soggetti da lui notoriamente più amati, la natura con i suoi animali (tori e cavalli soprattutto, anch’essi molto presenti nella sua vita personale), che si inframezzano al resto, rendendo tutto molto fluido e scorrevole, nonostante le tre ore della durata del film. Non vi è un’inquadratura che non sia esteticamente curata e suggestiva.
Vi è un incipit molto bello che, per il soggetto ripreso, potrebbe ricordare in qualche modo Meektoub my – Love Canto primo, l’ultimo film di Abdellatidìf Kechiche, presentato sempre in concorso a Venezia lo scorso anno, perché, come in esso, si tratta dell’osservazione diretta dell’interazione pura e semplice tra un gruppo di bambini e poi di adolescenti che trascorrono insieme, in attività spontanee, parte del loro quotidiano, e il regista le riprende rendendocene partecipi. Ma anche tale eventuale rievocazione ne sarebbe una versione molto più equilibrata, nel senso che la differenza tra i due sta nel fatto che in questo caso si tratta di uno sguardo infinitamente più delicato e profondo e nonostante anche Reygadas si soffermi sui corpi dei ragazzi e sulla loro sensualità, sul loro desiderio, come avveniva nel film di Kechiche, il fatto che lo faccia in modo meno ostentato e che dall’immagine lasci trasparire qualcosa che val al di là della percezione puramente visiva rende la rappresentazione dello stesso soggetto molto più coinvolgente ed efficace, senza essere in nessun modo meno potente.
Al di là di questo paragone, la circostanza che vi sia un inizio che si concentra su scene che riprendono bambini e adolescenti, tra i quali tra l’altro vi sono i figli della coppia, che poi evolverà progressivamente giungendo al soggetto principale, suggerisce il dispiegarsi di un flusso temporale, di un processo evolutivo scandito dal tempo, che parte dalle età rappresentate e torna più volte nel film in altri termini. Il regista stesso ha dichiarato che per lui il tempo è la cosa più bella del cinema, che ci si costruisce il ritmo, che i suo obiettivo principale non è mai la narrazione di una storia, ma sono il tempo e il ritmo gli elementi più importanti attraverso cui esprimersi dal suo punto di vista. Questo, nonostante in realtà Nuestro Tiempo sia forse l’opera più narrativa, meno onirica e surreale tra quelle presenti nella filmografia di Carlos Reygadas, rispetto per esempio Battaglia nel cielo (2005) o Post Tenebra Lux (2012).
Si può dire che la messa in scena di Nuestro Tiempo abbia una direzione centripeta, nel senso che parte dalla rappresentazione di situazioni generiche quotidiane, che non si focalizzano su nulla in modo particolare, ma semplicemente accompagnano ciò che accade a queste persone mentre vivono la loro vita, le loro giornate, il loro lavoro, senza entrarvi nello specifico, fino ad avvicinarsi progressivamente e gradualmente, arrivandoci in modo fluido, a quello che è il cuore del discorso e ne è il tema centrale, la coppia. E man mano che si progredisce verso l’essenza del film, anche l’intensità degli stati d’animo evolve in parallelo al progressivo accentramento, conferendo alla narrazione una forza sempre maggiore. E si ha quasi una sorta di timore reverenziale nel descrivere ciò che accade quando si entra nel vivo di ciò che Reygadas vuole raccontare: perché, mai come in questo caso, soltanto vedendo il film se ne avrebbe un’idea rappresentativa ed esaustiva, proprio perché trattasi di una dimensione così umana che riguarda chiunque e sulla quale è così facile identificarsi e, dunque, anche la percezione che ne deriva è estremamente soggettiva. Quindi, qualsiasi parola in merito può risultare riduttiva oltre che condizionata dalla visione di chi scrive. Juan e Esther scelgono la strada apparentemente più libera e scevra di complicazioni, della coppia aperta, nel tentativo di rispettare la spontaneità di ognuno dei due senza perdersi. Reygadas accenna soltanto alla cosa senza esplicitarla ma appare quasi subito abbastanza chiara. Tale scelta viene dall’esigenza di svincolarsi dall’idea di possesso e di costrizione in una coppia, che ha comunque le sue regole che i due hanno stabilito e che palesano in ogni caso una necessità di controllo, come il patto che le relazioni esterne debbano essere soltanto sessuali, che ce lo si debba dire sempre quando accade. Ma soprattutto tale gestione del rapporto crea l’illusione che essere liberi sessualmente possa mantenere la coppia eterna, tralasciando un “piccolissimo” particolare, ciò che non si può decidere, direzionare, controllare ma che accade da sé senza che si possa prevedere: i sentimenti. Come questi possano iniziare, cambiare, finire, ricominciare, senza che si abbia su alcuna di queste cose il minimo potere.
Così, quando Esther si innamora stravolge tutto l’apparente equilibrio che i due avevano cercato di costruire, rendendo palese l’impossibilità di vivere la coppia soltanto in base alle previsioni e ai fatti. Vi è un susseguirsi a catena di eventi che testimoniano tutto questo, con Esther che inizia a non riferire cosa le accade, ad arrabbiarsi davanti a qualsiasi domanda, reazione che incrementa esponenzialmente la paura di Juan che, percependo la distanza, inizia a sentirsi sempre più insicuro, ad aver bisogno di controllare la moglie, il cellulare, le telefonate, a fare scenate di gelosia, tutte situazioni che lo pongono in una posizione identica a quella di qualsiasi essere umano innamorato che vede franare la terra sotto i suoi piedi, prova il terrore di perdere la persona amata e ne soffre come un cane. È efficacissimo nel trasmettere il dolore di questa condizione il racconto di come Juan, per gestire la situazione, provi a fare affidamento su quelle regole su cui aveva basato il suo progetto di coppia, contattando l’amante di Esther, invitandola ad avere rapporti sessuali con lui e con altri mentre lui li guarda, come se il fatto di averla sotto controllo ed essere al corrente potesse cancellare il dolore che deriva dal fatto che non è più lui l’oggetto d’amore della sua donna, ottenendone soltanto un progressivo incremento. Le scene di sesso alle quali Juan assiste sono dei veri e propri pugni nello stomaco che suscitano nello spettatore che si identifica una vera e propria sofferenza fisica. Ed è bellissimo e tragico, allo stesso tempo, quando durante un ennesimo tentativo di illusorio controllo, Juan riconosce nell’espressione della moglie quella che aveva quando si è innamorata di lui e lì cade qualsiasi utopia. Che si tratti di coppia, aperta, chiusa o qualsiasi altra opzione, l’amore funziona sempre nello stesso modo imprevedibile, non si può avere un controllo su ciò che non si può controllare, non si può sfuggire al controllo creandone uno ulteriore.
“Quando le cose vanno male, tu lasciale scorrere”: è il consiglio che Juan dà al figlio più grande in un momento di sconforto del ragazzo, senza poi però riuscire lui stesso a metterlo in pratica. Mentre questa frase lo dice esplicitamente, il progressivo e inesorabile distruggersi della coppia lo palesa con i fatti. L’unico modo di vivere una reciprocità amorosa è lasciarla scorrere per quella che è, senza cercare di darle una forma che non può essere indotta ma può solo prendere vita e funzionare in modo spontaneo, correndo il rischio che scemi, che venga minata da agenti esterni, così come da difese e bisogni individuali di ognuno dei due, che possa essere soppiantata e finire per sempre, per quanto grande e profondo possa essere stato quell’amore.