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Venezia 75: Roberto Andò e la sua riflessione sulla potenza dell’immaginazione nell’arte e nel cinema

Roberto Andò restituisce un’opera di genere, come in Italia non si vedeva da parecchio tempo, e, contemporaneamente, dà il via a un discorso squisitamente metacinematografico che ingloba suggestioni mai banali sulla distinzione fra vero e falso. Un cinema dove è un piacere affogare, tra ammiccamenti e sottigliezze, piccole leziosità di trama e felicissime intuizioni cinefile

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Si parte dalla sparizione de La Natività di Caravaggio, avvenuta a Palermo nel 1969; si passa poi dal libro di Leonardo Sciascia, Una Storia Semplice, che ricostruisce l’avvenimento contestualizzandolo nella città siciliana dell’epoca, dove la criminalità era tollerata non solo dalle istituzioni e sembrava quotidianità; e si arriva alla ricostruzione che Roberto Andò esegue per arrivare ad Una Storia Senza Nome, ultimo Fuori Concorso italiano a Venezia 75: e diciamolo subito, è un film delizioso. Forse ancora di più per quanto inaspettato lavoro di un autore che conquista un’insospettabile levità, proprio mentre ne guadagna la sua profondità. Mettendo a frutto il suo universo fortemente debitore dell’attualità più urgente, Andò restituisce un’opera di genere come il cinema italiano ha forse disabituato il suo pubblico ad aspettarsi: e il film ispirato al celebre furto, tuttora irrisolto, vola leggero mentre sottocutanei scorrono temi forti e importanti. La connivenza fra potere, politica e mafia, i misteri italiani che stentano a risolversi, e su tutto un discorso apertamente, squisitamente metacinematografico che ingloba suggestioni mai banali sulla distinzione fra vero e falso, parlando apertamente della duplicità della vita.

Noi sappiamo bene cosa siamo, ma non sappiamo cosa potremmo essere”, è la frase che una splendida Micaela Ramazzotti sussurra all’orecchio di un hacker: incuneata in un mistery avvincente (lei è segretaria in una casa di produzione di cinema, ha un amante scrittore in crisi creativa e a cui fa da ghostwriter, e sbuca dal nulla un misterioso super investigatore che la spinge a raccontare la verità sulla tela scomparsa, distruggendo ogni confine tra finzione e realtà, pubblico e privato), Una Storia Senza Nome ci dice che la verità è ineffabile e inarrivabile, inconoscibile, per cui spetta all’arte, e quindi all’uomo e al suo atto creativo, ripeterla e ricostruirla, nelle declinazioni che di volta in volta sembrano le più opportune.

Un mondo virato al nero, che viene lentamente inghiottito dall’ombra scura del mistero: la verità spesso uccide, dicono nel film, ma a salvarci c’è la finzione. È intorno a questi assunti lineari e abissali nella loro semplicità che si srotola un film costruito intorno al tema del doppio: la protagonista è un’impacciata assistente ma anche una spia spericolata, Alessandro Gassman un brillante autore di successo, ma anche uno sceneggiatore in crisi, la mamma di lei (Laura Morante) è una donna impicciona, ma anche un’ex agente segreto – e così via per tutti i personaggi, che lentamente svelano la loro duplicità, mentre il tema del film scivola dallo svelamento del mistero allo studio della doppiezza della realtà che viviamo, come la vediamo e come in realtà è.

Una Storia Senza Nome è un cortocircuito continuo, un labirinto di bugie ma anche un gioco di specchi dove ogni superficie rimanda la nostra immagine, o quella che preferiamo svelare a noi stessi. Ed è questo il cinema dove è un piacere affogare, tra ammiccamenti e sottigliezze, piccole leziosità di trama e felicissime intuizioni cinefile.

GianLorenzo Franzì

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