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Venezia 75: con Ying, Zhang Jimou prosegue il suo rigoroso e coerente sentiero di autore

Ying di Zhang Jimou si risolve in una messa in scena sontuosa, affiancata a un simbolismo potentissimo ed esoterico. Un impianto visivo maestoso, che impasta ogni suggestione restituendo un’opera preziosa, immaginifica, enorme

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Dove il pensiero si fa forma: è lì che nascono e vivono i film di Zhang Jimou. Presentato a Venezia 75, Ying non fa eccezione, proseguendo rigoroso e coerente il sentiero di un autore che riesce a creare un impasto magico di visionarietà, rigore formale, attenzione per i particolari e i personaggi e impatto cromatico.

Ying entra a pieno titolo in quel filone narrativo di Yimou che a tratti riprende il genere tradizionalmente (ma non tradizionale) del wuxiapian, le arti marziali: e lo fa con una duttilità inventiva impressionante e inimitabile. Desaturato quasi fino a sembrare in bianco e nero, lascia che i suoi personaggi risaltino sui fondali suggestivi senza rinnegare la poetica profondamente intrisa di storia e cultura orientale. La filmografia di questo autore così unico – dall’esordio con Sangue Rosso, passando per il capolavoro Lanterne Rosse, Ju Dou, sterzando con Non Uno Di Meno, e ancora arrivando alle contorsioni acrobatiche di Hero e La Foresta Dei Pugnali Volanti fino a Sangue Facile – va di pari passo, spesso precorrendola, a quella della cinematografia cinese e alla capacità di confermarsi, rinnovandosi, alla guida di un movimento artistico che sa maneggiare con maestria invidiabile.

E con Ying accompagna lo spettatore nel 200 d.C., nella Cina dei Tre Regni, dove accadeva che i re e i nobili vivevano giorno per giorno con il timore di venire assassinati. È per questo che assoldavano delle “ombre” (chiamate storicamente così per il loro essere passati inosservati nei libri di storia, dove nonostante il loro costante apporto sono stati risucchiati e inghiottiti appunto come un’ombra), persone fisicamente a loro simili che li servivano con coraggio e devozione, sostituendosi di fatto a loro e portando avanti le loro battaglie, sfidando quotidianamente la morte per un perverso senso dell’onore.

Fantasmi della storia, queste controfigure con Jimou si fondono e si confondono con i corpi che li proiettano: la storia raccontata è quella del “sostituto” del Gran Generale, ardentemente desideroso di combattere la battaglia che restituirà alcuni territori al suo sovrano, reggente dispotico e misterioso, in un crescendo furioso di combattimenti, ma anche di sontuosità visiva. Nelle quinte, Yimou racconta però con partecipazione emotiva di un uomo e del suo doppio, e di come la sostituzione scivoli fino a interrogarsi sul senso stesso di identità: in una terra enigmatica e occulta, l’autore sembra dare la stura al suo senso del meraviglioso (re)inventando un mondo e un immaginario fantastico e fantasmatico allo stesso tempo, dove le ombre si fondono con la realtà, ed è solo il contrasto a delineare il contorno dell’uomo. Ying è complesso e diretto: nel suo mettere in gioco testi e sotto testi, da una sceneggiatura scarna che si risolve in una messa in scena sontuosa, affiancata a un simbolismo potentissimo ed esoterico. Un impianto visivo maestoso, che impasta ogni suggestione restituendo un’opera preziosa, immaginifica, enorme.

GianLorenzo Franzì

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