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Venezia 75: delicata e toccante At Eternity’s Gate, l’opera di Julian Schnabel su Vincent Van Gogh (Concorso)
Un film su Van Gogh che più che parlare del pittore, racconta del suo concepire l’arte e di conseguenza la vita, o viceversa, di solitudine, di affetto, di colori e di talento. Un bel viaggio, che conferma la sensibilità di Schnabel dopo Basquiat e lo struggente Lo scafandro e la farfalla
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6 anni agoon
Ed è la volta di At Eternity’s Gate di Julian Schnabel, che viene proiettato in sesta giornata, arrivati ormai alla metà della competizione, nella sezione Concorso della Mostra del Cinema di Venezia. Pur avendo corso il rischio della scelta di un soggetto già ultra rappresentato in ambito cinematografico e non solo Schnabel è riuscito a darne una visione personale delicata e toccante. Dopo essersi già occupato di Basquiat (1996), il regista dedica il suo nuovo lavoro al racconto degli ultimi anni della vita del celebre pittore olandese Vincent Van Gogh. Il cineasta sposta l’attenzione dal racconto dei fatti, se vogliamo piuttosto essenziale, privo di fronzoli e grandi approfondimenti, ed è molto più interessato a concentrarsi sul sentire dell’artista e su come questo abbia influenzato la creazione della sua arte. Schnabel ha cercato, attraverso la riproduzione delle sue parole, la musica e le luci con le quali ha ripreso la natura tanto amata dal pittore, di ricreare l’atmosfera e l’essenza che hanno preso forma nei suoi quadri, quella che lui tanto teneva a condividere attraverso di essi, riuscendo, oltre che nell’intento di rendergli omaggio, non soltanto narrandone le vicissitudini, a far emergere la sua urgenza di dipingere, la consapevolezza del suo talento, il suo dolore, insieme veicolo e fonte da cui attingere per esprimersi. Forse proprio in quanto anche lui pittore, il regista è stato inoltre capace di far sì che qualsiasi artista potesse condividerne i bisogni, tormenti, i desideri, consentendogli così di identificarcisi e di farlo in modo viscerale. Schnabel ha preso in prestito gli aspetti più struggenti della vita di Vincent Van Googh e ne ha fatto la materia prima, i colori per stendere il proprio dipinto, un po’ con la stessa urgenza che muoveva il suo soggetto, o quantomeno è ciò che si percepisce e che rende l’opera così autentica.
Complice assoluto della riuscita del lavoro è l’interpretazione ineccepibile di Willem Dafoe, che nonostante l’età di 63 anni è stato perfettamente credibile e convincente nel ruolo di un uomo che quando è morto ne aveva 37. Dafoe incarna un personaggio con il quale si empatizza fortemente sin dall’inizio; ne è un esempio una delle scene iniziali, nella quale Van Gogh si ritrova a dover riempire di soli suoi quadri la parete di un locale nel quale era prevista una mostra alla quale avrebbero dovuto partecipare tanti altri artisti che, invece, gli hanno dato forfait all’ultimo momento, e si prova una pena infinita a vedere la sua espressione di sconforto e di prostrazione mentre il padrone del locale lo costringe a toglierli una settimana prima del previsto, dimostrandogli senza pietà tutto il suo disprezzo sia per lui che per il suo lavoro. Ciò che emerge più fortemente e in modo più palese da questo ritratto del pittore olandese, è la profonda solitudine che ha sempre pervaso l’animo di quest’uomo, il suo continuo senso di esclusione e l’enorme bisogno di sentirsi voluto, amato, visto, di avere un senso di appartenenza che si è sempre sentito negato.
“Volevo soltanto essere uno di loro… come una famiglia…”.
Inizia con queste parole il film, rivelando da subito il nucleo principale del suo vissuto. E al fine di esprimere questo aspetto, è assolutamente funzionale la rappresentazione degli elementi più patiti del rapporto con le due persone che per lui sono state le più importanti. Il fratello minore Theo, che ha costituito per lui una vera e propria figura genitoriale, e che lo ha amato incondizionatamente occupandosi di lui durante tutta la sua vita. E l’amico Paul Gaugin, con il quale Van Googh ha intrattenuto un rapporto di affetto sincero e necessario. Ed è proprio la necessità di questi legami che è più palese, qualsiasi relazione in cui gli venisse dimostrato interesse e affetto, diventava per il pittore una sorta di ossigeno. Le due scene probabilmente migliori sono entrambe riferibili a questi vissuti, quella in cui Theo va a trovare il fratello in ospedale, e si sdraia nel letto accanto a lui, e quella in cui Gaugin gli comunica che deve allontanarsi e la sua reazione (quella che poi ha portato alla crisi esitata nel noto taglio dell’orecchio).
Vincent Van Gogh aveva un bisogno infinito di calore, un calore che come tutte le persone sole trovava nelle uniche cose su cui poteva davvero fare affidamento perché dipendevano soltanto da lui, perché non potevano abbandonarlo o andarsene, i colori e la natura che avrebbe sempre potuto dipingere e l’anima con la quale lo faceva. Insomma, tutto ciò che poteva essere auto alimentato e che non necessitava della presenza di altri. Ovviamente, non era sufficiente ad appagarlo affettivamente, ma ciò rendeva enormemente brillante e luminoso tutto ciò che produceva. Il bello che viene espresso in questo film è che nonostante Van Gogh sia sempre stato noto per la sua sofferenza e per la sua instabilità mentale, per essere una persona estremamente tormentata, in realtà tutto quel dolore, poi, faceva parte della sua essenza, si mescolava alle sensazioni positive di cui il pittore era assolutamente prodigo come si mescolano i colori e diventava gioia, entusiasmo, slancio. Quello slancio emotivo urgente che non prevede distinzione tra emozioni positive o negative, che è un unico flusso che scorre lungo un unico canale e poi sgorga fuori nel suo caso in forma di colori, di dipinti, di arte.
“Trovo gioia nel dolore, il dolore è più forte di una risata”.
Anche la sua instabilità mentale, le sue allucinazioni, i suoi ricoveri negli ospedali psichiatrici, non erano altro che la forma che prendeva il suo dolore, quello che non riusciva a controllare o a trasformare in slancio da far confluire nella sua arte.
“C’è qualcosa di strano in me, mi dicono che di notte grido da solo, faccio delle cose, che a volte piango. Ma io non ricordo niente di tutto questo, ricordo solo il buio e l’angoscia. A volte mi sento così distante da tutto…”.
Tutto ciò era ovviamente amplificato e reso ancora più penoso dall’alcool. Altro elemento che si evince dalla prospettiva di Schnabel, che è molto bello, è qualcosa che la maggior parte degli artisti non hanno.Vincent Van Gogh era consapevole del suo talento, di quanto fosse fondamentale la sua urgenza di dipingere. Indipendentemente dal fatto che questo non sia mai stato riconosciuto.
“Non posso vivere senza dipingere, non so fare nient’altro. Mi dichiaro pittore perché dipingo. Forse ha scelto l’epoca sbagliata, forse Dio mi fa dipingere per uomini che non sono ancora nati”.
Emblematica la scena finale in cui la bara del pittore è circondata dai suoi quadri che solo allora destano l’interesse delle persone. Quando l’amico Gaugin cercava di dargli dei consigli dicendogli che dipingeva troppo velocemente, che il suo tratto era troppo grossolano, di controllarlo, egli gli rispondeva che non voleva controllarsi, né calmarsi, che il tocco doveva essere rapido, che più dipingeva velocemente, più si sentiva bene. Infine, appare molto chiaro come l’autore non sia minimamente interessato a dare un’interpretazione sulle circostanze della morte del pittore, che non sono mai state chiare e che descrive esattamente in questo modo senza lasciare intendere di propendere né per il suicidio, né per l’omicidio.
Nel cast anche Rupert Friend, Oscar Isaac(Gaugin), Mads Mikkelsen, Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner.
La bellissima colonna sonora, percorre l’opera accompagnando i colori e scandendo gli stati d’animo. Quindi un film su Van Gogh che più che parlare del pittore, racconta del suo concepire l’arte e di conseguenza la vita, o viceversa, di solitudine, di affetto, di colori e di talento. Un bel viaggio, che conferma la sensibilità di Schnabel dopo Basquiat e lo struggente Lo scafandro e la farfalla.