In Dog Days di Ken Marino i cani sono i protagonisti e i complici di una serie di storie che s’intrecciano sullo sfondo di Santa Monica a Los Angeles, in una California assolata e paradisiaca. Abbiamo così una coppia mista che adotta una bambina e una cagnolina riesce a farla parlare; un musicista squattrinato e disordinato che accudisce il cane della sorella mentre partorisce due gemelli; un professore vedovo che perde il proprio cane, ma trova l’amicizia di un adolescente; una presentatrice di un programma televisivo in un canale locale, tradita dal suo ex, che si innamorerà del nuovo co-conduttore (complici i loro cani); e, infine, una giovane commessa in un Caffè, invaghita di un veterinario, che si innamorerà del direttore di un canile.
È vero che in periodi di crisi economica e sociale le produzione virano verso film di genere e le commedie sono le preferite, dove tutto “è bene ciò che finisce bene”, per trasformarsi in un lenitivo per l’anima dello spettatore alle prese con una realtà drammatica. Del resto, la famosa screwball comedy di Howard Hawks e i musical con Ginger Rogers e Fred Astaire negli anni Trenta e Quaranta avevano quello scopo, ma crearono allo stesso tempo nuovi stilemi, misero in luce grandi professionalità, permisero la nascita di attori e attrici che si ricordano ancora oggi e regalarono dei veri e propri capolavori entrati nella storia del cinema. Ecco, Dog Days è niente di tutto questo. È un film di una lunghezza spropositata, dove il sentimento amoroso è ridotto a una poltiglia melensa sbattuta in faccia in ogni frame: amore per gli animali, amore fraterno, amore filiale, amore professionale, amore per la musica, dove tutto si esprime secondo binari prestabiliti con dialoghi che si sanno a memoria prima ancora che vengano pronunciati dai personaggi. Non c’è un’inquadratura senza sorrisi e pianti di felicità: un mare di miele spesso e profondo e (decisamente) nauseabondo.
Se l’obiettivo di un film come Dog Days era mettere insieme un proclama in difesa dei migliori amici dell’uomo (ciò molto nobile e condivisibile) – anche se avremmo voluto vedere pure i gatti a un certo punto (ma questo è un altro film) – certo il risultato è deludente sotto molti punti di vista. Da un lato, l’intreccio delle differenti storie, che scorrono in parallelo per poi congiungersi nel finale in una grande festa – per recuperare il denaro e salvare il canile che ha subito uno sfratto improvvido -, è composto da troppe sequenze ripetitive, in una duplicazione di personaggi (la doppia storia d’amore delle coppie tra i personaggi televisivi e tra la commessa e il direttore del canile) e la moltiplicazione delle situazioni (tutte quelle con protagoniste i cani sono praticamente uguali per sviluppo narrativo e drammaturgico). Dall’altro lato, il caos creato dalla sceneggiatura è peggiorato dalla regia piatta e scolastica di Marino, alla sua seconda esperienza dietro la macchina da presa, con una storia di attore di serial televisivi, che dirige senza fantasia.
Infine, Charlie Chaplin diceva: “I bambini e i cani sono i migliori attori di cinema.” Ecco, noi siamo d’accordo con lui per quanto riguarda Dog Days. E per pudore non aggiungeremo altro.