Come deve essere un film di denuncia? Anzi, cos’è esattamente il cinema di denuncia? Deve essere politico? Deve assumere i contorni di un’inchiesta? Deve risvegliare le coscienze? L’Italia ha un curriculum glorioso, nel campo: a partire dagli anni ’60, quelli “impegnati”, il cinema definito d’autore ha indagato nelle pieghe – e nelle piaghe – più nascoste della società e della cultura, immergendosi a volte senza paura in quell’abisso oscuro che è la giungla politica del belpaese.
Sulla Mia Pelle, di Alessio Cremonini, presentato in anteprima nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia nella giornata inaugurale, sembra inserirsi prepotentemente in questo filone, che oggi risulta qui da noi scarnificato da una parte e (ingiustamente) sovraffollato dall’altra: perché affrontare la cronaca – sempre più spesso, purtroppo, nera e giudiziaria – è difficile, trattandosi di un sentiero impervio, pieno di ostacoli e buche. Sulla Mia Pelle sta attentissimo, sulla carta: evita di mostrare – e qua c’è l’intelligente anche se non propriamente originale intuizione di Cremonini di chiudere il nucleo della storia dietro una porta chiusa, lasciando l’immagine ferma per poi oscurare – quello che accadde, e che a noi deve interessare, a Stefano Cucchi in quella tragica notte del 15 ottobre 2009. Ne mostra però poi le conseguenze fino al parossismo: esibendo le cicatrici sul volto e sul corpo del protagonista lascia che la storia si svolga lungo le coordinate tracciate dal mistero, dal non visto, e insieme con mano ferma immortala gli errori, gli sbagli e le mostruosità che hanno portato, esattamente sette giorni dopo, alla morte del ragazzo.
A Cremonini non interessa puntare il dito, bensì far vedere (in un bel cortocircuito cinefilo, perché lo fa senza mostrare) e rendere partecipe il pubblico, espandendo a macchia d’olio l’utenza di chi deve sapere e deve essere coinvolto dagli orrori che a volte non percepiamo perché non accadono sulla nostra pelle: ma avviluppa tutto il suo film sul corpo pesto di Alessandro Borghi, che con la sua interpretazione quasi mimetica (alla fine del film, sui titoli di coda, sentiamo l’audio originale del breve, conciso processo in cui Stefano è stato imputato, e si fa sinceramente fatica a distinguere dalla fiction vista poco prima) regge tutto il film sulle sue spalle, con i suoi sguardi e le sue ombre. Peccato, allora, che alla fine, a furia di levare, destrutturare, scivolare in avanti e indietro, di Sulla Mia Pelle non resti altro che lui, Borghi, monumento attoriale, pietra dello scandalo, che con una notevole prova di recitazione alla fine sortisce l’effetto opposto, stancando lo spettatore che viene sottoposto a continui rimandi narrativi, a stalli, a bolle d’aria.
Il film di Cremonini, insomma (che poi è anche centro nodale di una questione aperta fra Venezia e Cannes e porta un solo nome: Netflix), gioca fin troppo in sottrazione e gira intorno alla pietà umana, a un senso di commozione che spesso al cinema è un boomerang, un’arma a doppio taglio: perché senza nulla togliere alla sobrietà con cui il regista ha raccontato una storia così delicata e sentimentalmente fresca nella memoria collettiva, il ricatto emotivo della lacrima facile è dietro l’angolo, fino all’ultima, quasi insostenibile sequenza dove il corpo del reato viene mostrato nel suo orrore, nella sua astrattezza e fisicità contemporaneamente.
Non c’è traccia, dopo la visione, di un’idea di regia, ed è assente qualsiasi impianto narrativo minimamente stratificato: i personaggi non hanno un vero e proprio approfondimento, ma tutto il loro mondo interiore trapela dagli occhi e dai gesti degli attori: insomma non ci sono altro che loro, gli attori, che divorano il film con la loro frustrata ricerca del pianto perché se Borghi è bravo e lo sapevamo, e anzi il suo Cucchi non è neanche la sua interpretazione più riuscita, essendo troppo personaggio e troppo poco persona; Jasmine Trinca e Max Tortora, rispettivamente sorella e padre del protagonista, non sono affatto da meno, anzi. In particolare, la prima è una sicurezza, camaleontica eppure sempre presente a sé stessa, al suo sguardo assente eppure presente, al dolore che sa imprimere in un solo gesto; il secondo, bella scoperta, con una recitazione sghemba, piegata, sfuggente, giocata sul realismo con una naturalezza immediata e affascinante. Insomma, per concludere tornando all’inizio: cosa deve fare un film di denuncia? Sulla Mia Pelle fa riflettere: peccato però che, oltre alla cronaca, sul cinema (si) rifletta poco.
GianLorenzo Franzì