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Venezia 75: The First Man di Damien Chazelle con Ryan Gosling apre la mostra

Questa volta Damien Chazelle si avventura nel racconto della carriera dell’astronauta americano Neil Armstrong. The first man è un film non privo di pregi, ma dal regista di La La Land ci si aspettava di più

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Inizia esattamente come due anni fa la Mostra internazionale del Cinema di Venezia, quest’anno alla 75esima edizione, che si apre di primo mattino con la proiezione stampa del nuovo film di Damien Chazelle, The first man, quarto lungometraggio del regista che, dopo l’acclamato La La Land, torna in concorso in versione più sobria e misurata, forse troppo. Il film non gode di certo della stessa calorosa accoglienza riservata al precedente già in proiezione stampa, probabilmente a ragione, essendo un lavoro meno originale e appariscente e forse, è azzardato dirlo, meno valido, ma sicuramente molto meno coinvolgente ed empatico. Questa volta Chazelle si avventura nel racconto della carriera dell’astronauta americano Neil Armstrong, dalla sua assunzione alla NASA fino al suo noto primissimo allunaggio nel 1969.

Per sua stessa ammissione in conferenza stampa, il regista, che nei precedenti lavori si era sempre basato su tematiche che lo avevano riguardato da vicino, questa volta si è occupato di qualcosa che, invece, non conosceva personalmente, e per quanto si tratti di una materia che in qualche modo ha riguardato tutta l’umanità, come lui stesso ha detto, non ha mai vissuto dinamiche e vicende nemmeno simili a quelle che ha raccontato nel film, quindi ha dovuto trovare, non senza difficoltà, una modalità per relazionarcisi. Chazelle ha dichiarato inoltre di avere avuto l’intenzione di raccontare il Neil Armostrong uomo più che l’eroe, di aver voluto celebrare e onorare le sue caratteristiche private rispetto a quelle pubbliche, descrivendo un uomo umile e discreto, nella vita quotidiana piuttosto timido e distaccato, oltretutto particolarmente triste in relazione alla sua storia personale, gravata dalla perdita di una bimba di pochi anni a causa di un tumore, sottolineando comunque il fatto che anche nella dimensione più esposta, l’astronauta ha sempre voluto allontanare da sé le attenzioni, spostandole verso tutte le altre persone che sono state necessarie per compiere le missioni che lo hanno visto protagonista. Il fatto di essersi voluto concentrare sugli aspetti più intimi della vicenda, e di non dare troppo risalto al clamore e alla risonanza degli eventi, probabilmente ha penalizzato il risultato, nel senso che, forse, al fine di mantenersi equilibrato e non risultare melodrammatico Chazelle, da una parte, riduce le possibilità di coinvolgere lo spettatore attraverso lo slancio legato alla missione, al rischio e all’importanza della situazione in sé. Del resto, a onor del vero, c’è da dire che si tratta pur sempre dell’ennesimo film sull’uomo nello spazio e che sarebbe stato difficile risultare non ripetitivi e scontati puntando su “Huston, abbiamo un problema”, con tanto di applausi e strette di mano, quindi forse è stata l’unica scelta plausibile. Dall’altra, il film risente delle non eccelse doti espressive del suo protagonista, scelto dal regista a colpo sicuro dopo il successo di La La Land, un Ryan Gosling che stavolta non riesce a essere convincente, non essendo particolarmente credibile né come figura paterna, né come uomo-padre-marito-amico addolorato, e di conseguenza risulta poco efficace nel far risaltare proprio quegli aspetti che si volevano evidenziare.

Diciamo che mentre in La La Land le caratteristiche non esattamente dinamiche dell’attore erano state addirittura forse un elemento utile, compensando l’eventuale eccesso di brio caratteristico del musical per chi non è abituato al genere, in questo caso costituiscono un fattore sfavorevole, andando a minare proprio ciò che era l’intento dell’autore. Quindi si può dire che i due fattori che avrebbero dovuto tendere verso direzioni opposte compensandosi l’un l’altro, il focus sul vissuto umano più che sull’evento e la sobrietà nel racconto nel tentativo di non esasperarlo o drammatizzarlo, alla fine, vuoi per carenze espressive, vuoi per un eccessivo asciugarsi del racconto, che tra l’altro nella sua durata di due ore e un quarto risulta essere forse anche un po’ prolisso, si sono uniti convergendo entrambi in un unico peso che ha caricato negativamente il film sbiadendone l’esito e rendendolo poco empatico e forse troppo distante dallo spettatore. Non male il resto del cast che, per quanto assolta discretamente la sua funzione, è costituito da personaggi marginali che non brillano quasi mai di luce propria. Forse un minimo più incisiva rispetto agli altri la prova di Claire Foy, che interpreta Janet Armstrong, moglie di Neil.

Considerando gli aspetti positivi, che peraltro sono presenti, il film si presenta comunque come un accurato lavoro di ricostruzione nel quale tanti degli strumenti di scena, le tute, il casco di Armstrong, il sonoro del suo respiro durante le esercitazioni e i lanci, sono quelli vissuti e utilizzati realmente dal pilota. I produttori e il regista hanno raccontato di essere stati aiutati molto dai familiari dell’astronauta, cui è stata consegnata una copia della sceneggiatura con l’invito ad apporre delle annotazioni, sottolineando gli aspetti più umani e meno pubblici.

Un altro intento del regista che si è dimostrato essere decisamente riuscito è stato quello di esaltare il contrasto tra la vastità dello spazio e la dimensione claustrofobica vissuta dagli astronauti all’interno dei mezzi in cui viaggiavano, costituiti da abitacoli estremamente angusti. Chazelle ha affermato di essersi reso conto di questo aspetto visitando dei musei e vedendo con suoi occhi gli spazi all’interno dei quali i piloti erano costretti durante le loro missioni e di aver da subito deciso di voler rappresentare la sensazione angosciante che ne deriva. Gli si rende merito in questo, essendo molto bene riuscito nel suo proposito e avendo amplificato inoltre il senso di costrizione attraverso un particolare uso della macchina da presa, anche al di là delle scene rappresentanti le missioni. Vi è infatti un uso di primi piani strettissimi durante tutto il film, che a livello soggettivo può essere talmente asfissiante da infastidire. Altro elemento di pregio dell’opera, è certamente l’utilizzo molto efficace del suono: Chazelle afferma di aver avuto a disposizione un team molto valido per quanto riguarda questo aspetto. Vi è una sequenza iniziale che riprende un’esercitazione durante la quale si avvertono in successione il frastuono del lancio, l’incalzare del respiro del pilota e il silenzio siderale dello spazio, una volta raggiunta l’atmosfera terrestre, tutto in un intervallo di tempo brevissimo che rende l’effetto particolarmente incisivo.

Insomma, non un film privo di pregi o da non considerare valido, The first man di Damien Chazelle, ma forse ci si poteva attendere di più da un regista che si era fatto amare tanto solo due anni fa, rendendo il ricordo del suo precedente lavoro forse un’aspettativa troppo alta rispetto alle sue reali qualità. O forse soltanto un passo un pochino meno riuscito rispetto a un antecedente molto ingombrante nel bene e nel male. Le aspettative elevate erano caricate anche dalla presenza di Steven Spielberg nella produzione che inevitabilmente aveva ancora più accresciuto il potenziale di qualità e di gradimento. Già si vocifera di numerose nomination agli Oscar che francamente apparirebbero un riconoscimento non indiscutibile.

  • Anno: 2018
  • Durata: 138'
  • Distribuzione: Universal Pictures
  • Genere: Biografico
  • Nazionalita: USA
  • Regia: Damien Chazelle
  • Data di uscita: 31-October-2018

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