Tutti ci chiedevamo che fine avesse fatto Alexandros Avranas, il cineasta greco che, dopo aver messo in mostra le sue qualità con l’anticonvenzionale esordio sulla lunga distanza Without nel 2008, ha, cinque anni più tardi, scioccato letteralmente le platee di tutto il mondo con il disturbante Miss Violence, dramma sulla prostituzione minorile all’interno di un nucleo familiare disfunzionale con il quale si è aggiudicato il Leone d’Argento per la regia alla 70ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. La risposta è Dark Crimes, il thriller del 2016 arrivato solo ora sugli schermi nostrani con 102 Distribution, mentre nel circuito festivaliero e nelle sale estere già circola la sua ultima fatica dietro la macchina da presa dal titolo Love Me Not, dove una coppia benestante ingaggia una giovane immigrata come madre surrogata del loro futuro figlio.
Nella filmografia del regista e sceneggiatore di Larissa, Dark Crimes rappresenta una doppia occasione gettata al vento: da una parte quella di fare il definitivo salto di qualità per la sua carriera, misurandosi con qualcosa di diverso dalle precedenti esperienze, e dall’altra quella di potere lavorare con una produzione a stelle e strisce e con attori del calibro di Jim Carrey e Charlotte Gainsbourg, qui decisamente a mezzo servizio se pensiamo all’effettivo potenziale. Il primo, in particolare, in un ruolo inedito, se pensiamo alla sterminata e variegata galleria di personaggi, alcuni dei quali indimenticabili, che ha interpretato.
Di fatto, la trasferta non ha suo, e nostro, malgrado dato i frutti desiderati, al contrario ha segnato un deciso passo indietro lungo un percorso che sembrava spianato e che qui subisce una brusca frenata. Con Love Me Not, Avranas ha dovuto, infatti, fare ritorno in patria e riprendersi modalità produttive e argomentazioni a lui più congeniali per risollevarsi, seppur solo in parte, dai postumi della rovinosa caduta. Nella sua opera terza, ispirata all’articolo del 2008 True Crimes – A Postmodern Murder Mystery del giornalista del The New Yorker, David Grann, ha messo momentaneamente nel cassetto modus operandi e mood a lui più consoni per dedicarsi a un crime che mescola poliziesco e mistery con moltissime pretese e risultati piuttosto altalenanti. Se storia e personaggi, nonostante rimandi a opere analoghe (per qualche motivo la mente torna a Basic Instinct), potevano in qualche modo attirare a sé l’attenzione dello spettatore di turno, malauguratamente la linea gialla perde gradualmente sostanza per cedere ben presto alla prevedibilità di uno schema preconfezionato.
Il film racconta la storia di Tadek, “l’ultimo poliziotto onesto della Polonia”, che vuole coronare la propria carriera con un ultimo successo. Indaga infatti un caso irrisolto, di alcuni anni prima: il brutale omicidio dell’abituale frequentatore di un club BDSM, The Cage. Tadek nota che vi si è recato spesso anche lo scrittore Kozlow, che in un romanzo ha raccontato un omicidio pressoché identico. Partendo proprio dal testo letterario, il detective indaga su l’uomo e la sua compagna Kasia, che è una ex ragazza del The Cage. L’indagine è però mal vista dai superiori di Tadek, che preferirebbero se ne andasse in pensione in fretta, così come non è supportata dalla glaciale famiglia di lui, trascinata in un baratro dalla sua ossessione. Kozlow, infatti, accusa Tadek di perseguitarlo, alzando la posta in gioco della sfida e facendone una questione personale.
La lettura della sinossi e la visione della sua trasposizione rivelano la presenza della componente sadica e di quella voyeuristica, motivo che avrà spinto la RatPac Entertainment di Brett Ratner & Co. a puntare proprio sul cineasta greco. Sulla timeline si affacciano prepotentemente componenti e tematiche da lui già affrontate, come la violenza di genere, la famiglia disfunzionale, la corruzione e l’osservazione critica dell’immoralità odierna, nell’epoca della crisi economica ed etica. In questo e da questo magma di argomentazioni, Avranas finisce però schiacciato, e con lui il tentativo di giocare con i generi e i registri. Di interessante restano solo le atmosfere ansiogene, malate e marce, ottenute grazie alla fotografia di Michal Englert, alle quali il regista si affida per tirare fuori – di tanto in tanto – qualche soluzione visiva degna di nota. Per il resto, è meglio voltare pagina e dimenticare il più presto possibile questo incidente di percorso.