Dopo Everest (2015), il nuovo film del regista islandese Baltasar Kormákur, Resta con me, torna sul genere catastrofico, con personaggi isolati in scenari impervi e inospitali, ostili alla loro stessa esistenza, privi d’aiuto dall’esterno e obbligati a lottare per la propria sopravvivenza: siano le cime innevate della catena montuosa più alta al mondo o il deserto d’acqua del Pacifico meridionale, il canovaccio non cambia e, accanto a un elogio della tenacia e del coraggio dei protagonisti, la regia punta sulle riprese di scenari maestosi e su sequenze che si vorrebbero di forte impatto visivo ed emotivo sullo spettatore, dove gli elementi naturali si scatenano in tutta la loro furia e potenza, minacciando la vita umana e mostrandone la fragilità e la precarietà.
Ispirato a un fatto realmente avvenuto nel 1983 e tratto dal libro di memorie della sopravvissuta coinvolta nel naufragio, Resta con me mostra dapprima l’incontro fra i protagonisti nello scenario selvaggio delle isole Figi e la nascita del loro interludio, per poi virare verso il colpo di scena rappresentato dal naufragio, passando così bruscamente da un’atmosfera esotica e sentimentale a una catastrofica e avventurosa; dalla leggerezza iniziale alla drammaticità degli ultimi due terzi di durata. Questo mutamento di toni si rivela funzionale a esaltare, rendendolo ancor più imprevisto e violento per lo spettatore, il colpo di scena che segna la svolta narrativa dell’opera e il suo centro di gravità. Tami, spinta dall’istinto di sopravvivenza, deve industriarsi come può per cavarsi d’impaccio da una condizione oggettivamente disperata, ingaggiando una lotta contro una natura indifferente quando non ostile e, oltreché a se stessa, deve infondere speranza e fiducia a Richard, il quale, ferito e sanguinante, dipende da lei per la sua salvezza.
Se Resta con me è diretto da uno specialista del genere, competente e pratico quanto si vuole, e riempie l’ora e mezzo abbondante di durata senza venire a noia allo spettatore, si limita d’altro canto a inserirsi in un filone, quello appunto del film catastrofico, particolarmente in voga in questi anni ed evidentemente apprezzato dal pubblico, specie nel periodo estivo, senza tuttavia nulla aggiungervi di nuovo, né riuscire memorabile. Quella di Kormákur rimane dunque l’opera di un mestierante, che svolge onestamente il suo compito: appassionare ed emozionare il pubblico come vogliono le regole del genere, senza particolari ambizioni d’innovare la materia di base, né di proporre una lettura personale. Il risultato è così quello di un film uguale a molti altri fondati su una trama simile, dove gli effetti speciali e le ambientazioni esotiche la fanno da padrone, assurgendo al ruolo di autentici protagonisti del dramma, tanto che la figura umana, e quindi l’attore che l’incarna, soccombe dinanzi alla maestosità e alla furia della natura. Le stesse isole Figi, teatro della vicenda, sono state ormai ampiamente sfruttate dal cinema americano, fin dai tempi di Laguna blu (Blue lagoon, 1980), finendo col perdere gran parte del loro potenziale e riducendosi a meta turistica ormai alla portata di tutti, cui lo sguardo dello spettatore s’è ormai da tempo abituato.
Un altro limite di Resta con me, o quantomeno un punto di debolezza, è quello d’inserirsi in un filone ormai abusato, tante sono state le opere di questo genere uscite nelle ultime stagioni cinematografiche: da The impossibile (2012), una spanna sopra agli altri, grazie alla presenza di un’attrice di grande talento come Naomi Watts, a Paradise beach: dentro l’incubo (The shallows, 2016), quest’ultimo ibridato col genere dell’orrore; a Il domani tra di noi (The mountain between us, 2017), ambientato anch’esso sulla cima di un monte innevato come Everest di Kormákur); ai vari Piranha 3d succedutisi nelle ultime estati; fino a risalire, per l’ambientazione in alta montagna, ad Alive-sopravvisuti (1993), a sua volta ispirato a una storia realmente accaduta e, quella oceanica, al notevole Ore 10: calma piatta (Dead calm, 1989), di Philip Noyce, con Sam Neill e una non ancora famosa Nicole Kidman. Come si vede, il film di Kormákur appartiene a un genere, pur nelle sue diverse declinazioni (ora più sbilanciato sul versante drammatico, ora su quello dell’orrore, ora sul quello giallo), ben consolidato e intensamente sfruttato dai produttori hollywoodiani negli ultimi anni, cui niente di nuovo sa aggiungere se non un’onesta professionalità.