Millennium – Uomini che odiano le donne (The Girl with the Dragon Tattoo), un film del 2011 diretto da David Fincher vincitore dell’Oscar al miglior montaggio 2012 . Girato in lingua inglese, il film è il secondo adattamento cinematografico del romanzo di Stieg Larsson Uomini che odiano le donne, primo capitolo dell’iniziale trilogia tratta dalla serie Millennium, già portato sul grande schermo nel 2009 con l’omonimo film svedese. Sceneggiato da Steven Zaillian, il film è interpretato da Daniel Craig, che veste i panni del giornalista Mikael Blomkvist, e da Rooney Mara nel ruolo di Lisbeth Salander.
Sinossi
In attesa di scontare una pena per calunnia, Mikael Blomkvist (Daniel Craig), giornalista di una rivista scandalistica sul mondo della politica e dell’imprenditoria, riceve l’incarico di indagare sulla misteriosa scomparsa di una ragazza avvenuta quarant’anni prima. A commissionare le ricerche è lo zio della ragazza, membro della potente famiglia di industriali dei Vanger, convinto che la ragazza sia stata assassinata. Il reporter è affiancato da Lisbeth Salander (Rooney Mara), giovane hacker, piena di piercing e tatuaggi, dal carattere asociale e scontroso, per via della sua tormentata esistenza. Insieme, scopriranno un mondo fatto di inganni, brutalità e omicidi seriali da cui cercheranno di fuggire per evitare di rimetterci la pelle.
La recensione di Taxi Drivers (Eugenio Ercolani)
La parabola dell’autore Stieg Larsson, scomparso nell’inverno del 2004, potrebbe ricordare per certi aspetti la triste vicenda di Franz Kafka. Il tormentato scrittore ceco vide pubblicata solo una minuscola parte dei suoi scritti. Il suo stile così asciutto e nervoso fu riconosciuto solo dopo la dolorosa morte, avvenuta per tubercolosi nel 1924, esattamente come nel caso di Larsson. Se però Kafka, raggiunta la consapevolezza che la fine era in arrivo, diede tutti i suoi manoscritti allo storico amico e confidente Max Brod, facendogli promettere che li avrebbe distrutti nel fuoco, Larsson poco prima di essere colpito da un fatale attacco di cuore consegnò la serie di romanzi che compongono la trilogia Millennium a una nota casa editrice svedese. Ma al di là di questo crudele gioco del fato, che ha sottratto a queste due penne il riconoscimento di cui meritavano di essere testimoni, le somiglianze non si fermano qui.
L’immaginario letterario di Kafka spesso viene inteso dai più come la descrizione di una realtà labirintica in cui l’Uomo non è altro che una pedina rinchiusa in contorti meandri burocratici, attanagliato da un perenne senso di colpa, tipicamente ebraico, che lo porta a un conflitto interiore tra umanità e legge, desiderio e colpa. Una realtà fredda e disumanizzante in cui gli individui sono insetti perennemente osservati e sotto processo. I protagonisti di Kafka, nella loro assoluta mancanza di personalità o di una qualsiasi caratteristica che li renda unici, sono continuamente osservati, dalla famiglia, dal Dio-Stato. L’inganno e la capacità di celarsi dietro un’immagine di apparente tranquillità sono gli unici strumenti di difesa. L’inganno, con tutte le sue conseguenze, è il punto focale tra Larsson e Kafka. I personaggi di Larsson in questo senso sono kafkiani, nella misura in cui nella loro realtà l’inganno sembra essere l’unico principio ordinatore.
Sebbene i due autori siano quindi accomunati da questa peculiarità, nelle opere di Kafka, a differenza di quelle di Larsson, la sessualità paradossalmente si fa notare per la sua completa assenza. Qualsiasi impulso libidinoso, visto dallo scrittore come osceno e animalesco, si intravede soltanto. Nelle opere di Larsson, invece, l’atto sessuale o, meglio, il tentativo di trovare un legame emotivo tramite il sesso è visto come qualcosa di astratto e utopico. Il sesso è potere, violenza o, semplicemente, un altro luogo dove potersi rifugiare. Non a caso, uno dei temi portanti della trilogia, l’abuso sessuale, la femminilità come qualcosa di fragile, che troppo spesso viene contaminato dalla violenza dell’uomo, nasce dai traumi dello stesso scrittore. All’età di 15 anni il giovane Stieg fu testimone dello stupro di gruppo di una giovane ragazza, episodio che lo portò alla totale e netta repulsione nei confronti della violenza sulle donne. La sua compagna per 32 anni, Eva Gabrielsson, più volte dichiarò che quell’ “evento” lo segnò a vita, tanto da portarlo a definirsi spesso un femminista convinto. Lo scrittore non si perdonò mai per non essere riuscito a salvare la ragazza.
Già dalla sua spettacolare, cupa e monocromatica sequenza iniziale, si intuisce che l’imminente trasposizione cinematografica del primo romanzo della trilogia, Uomini che odiano le donne, più del suo equivalente svedese, rappresenta e sottolinea gli aspetti portanti del romanzo.
“Non ero di certo nuovo a storie di questo tipo, che parlano di assassini seriali, di violenza e di perversione ma ero del tutto entusiasta all’idea di cimentarmi in una storia che approfondisse un rapporto complicato tra una ragazza di ventiquattro anni ed un uomo adulto, due personaggi assai ben rappresentati nel libro di Larsson, un romanzo che ho molto amato. Mi intrigava molto provare a raccontare a modo mio la relazione tra i due, due individui così complessi ma diversi tra loro. Era una cosa che non avevo mai fatto e che non vedevo l’ora di fare con in mano la storia giusta. Per quanto sia riuscita la versione già realizzata di questo romanzo, il mio non è assolutamente un remake, perché la mia fonte è sempre e solo stata il romanzo”.
È all’incirca così che qualche giorno fa ha esordito David Fincher alla conferenza stampa per la sua pellicola. Non si può che essere d’accordo con il regista che, con mano salda, ci regala un film ben più muscolare e seducente del suo predecessore, nonché molto più onesto nel ritrarre gli elementi più duri della vicenda. Un’onestà che avrebbe probabilmente condiviso Larsson, il quale nella scrittura non ricercava di certo la sottigliezza nel descrivere gli atti di violenza. Descrivere la violenza per quella che è sembra la filosofia stilistica di entrambi gli autori. In questo senso plauso deve andare anche al talentuoso sceneggiatore, Steven Zaillian, responsabile tra gli altri di Schindler’s List, Mission: Impossible e American Gangster.
Come molti hanno sottolineato in questi giorni, la vera forza del film (ma la stessa cosa accadeva nel caso di Noomi Rapace per il primo) riposa interamente sulle spalle di Rooney Mara, giustamente candidata all’Oscar, che pervade il suo personaggio, Lisbeth Salander, di una sorta di grintosa fragilità. Ad affiancarla il carismatico Daniel Craig, l’unico attore in circolazione in cui sembra vivere ancora quel carisma rude ma intelligente di volti come Charles Bronson e Lee Marvin. A chiudere il prestigioso cast il leggendario Christopher Plummer, insieme a Steven Berkoff, Robin Wright e Stellan Skarsgard.
Le atmosfere glaciali e la fotografia livida, nonché certi elementi narrativi, potrebbero ricordare, come molti hanno sottolineato, un precedente film del regista, Zodiac. Ma se in quella bellissima, e per certi versi incompresa, pellicola Fincher inscenava un film d’analisi che ruotava intorno a un contesto ben preciso – facendo della ricostruzione meticolosa dell’ambiente giornalistico la sua forza primaria e riportando alla mente un certo cinema degli anni Settanta, in primis Tutti gli uomini del presidente di Alan J Pakula – qui siamo in territori ben più viscerali, in cui la macchina da presa non si sofferma soltanto sugli effetti collaterali della violenza, ma la osserva nell’epicentro del suo cuore pulsante, regalandoci una trasposizione degna del suo creatore.